Il gusto e la cultura del cibo in Italia. La mostra al museo M9 di Mestre
Raccontare com’è cambiato il rapporto degli italiani con il cibo negli ultimi cinquant’anni e indagare relazioni e valori che fanno capo al concetto di gusto sono gli obiettivi della mostra che inaugura al museo M9 di Mestre. Ne abbiamo parlato con i curatori
A un anno dalla sua nomina, lo scorso dicembre il neodirettore dell’M9 Museo del Novecento di Mestre, Luca Molinari, spiegava gli obiettivi dell’istituzione per il prossimo triennio, dopo un avvio difficile ‒ e non proprio fortunato ‒ nei primi tre anni di vita del progetto (due dei quali dominati dalla pandemia). Concepito come un centro di ricerca e divulgazione sulla storia del Novecento letto attraverso i cambiamenti sociali, politici e demografici, il museo vuole d’ora in avanti caratterizzarsi come coinvolgente laboratorio del contemporaneo, raccontando la cultura italiana in tutte le sue sfaccettature. Non a caso, a inaugurare il nuovo corso sarà, a partire dal 25 marzo, la mostra Gusto! Gli italiani a tavola 1970-2050, progetto a cura di Laura Lazzaroni e Massimo Montanari, con l’allestimento (al terzo piano del grande spazio espositivo) a firma di Gambardellarchitetti e la grafica di CamuffoLab.
LA MOSTRA DEDICATA AL GUSTO
Nell’arco temporale degli ultimi cinquant’anni, e con lo sguardo rivolto a individuare le sfide dei prossimi trenta, la mostra si propone di descrivere com’è cambiato il rapporto degli italiani con il cibo, e come questa evoluzione abbia influito sulla rappresentazione della cucina italiana nel mondo. Il gusto, in quanto fenomeno culturale, acquista qui dignità di essere indagato come motore di relazioni, dinamiche sociali ed economiche. Al contempo, il progetto risponde all’intenzione di riflettere, per scardinarli, sui luoghi comuni italiani, tema ricorrente nella programmazione del Museo del Novecento per il triennio 2022-2024.
Il compito di illuminare questa storia del gusto nella sua pluralità di valori e significati è stato demandato al professor Massimo Montanari, docente di Storia medievale e di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, oltre che direttore del Master europeo in Storia e cultura dell’alimentazione, e a Laura Lazzaroni, giornalista, scrittrice ed esperta di pani e grani, affiancati a loro volta da un comitato scientifico di professionisti del settore (Marco Bolasco, Eliana Liotta, Fabio Parasecoli, Ilaria Porciani, Emanuela Scarpellini). Ai due curatori abbiamo chiesto di raccontarci in anteprima la mostra, riflettendo sul concetto di gusto e sull’evoluzione delle abitudini alimentari degli italiani.
L’INTERVISTA AI CURATORI DELLA MOSTRA AL MUSEO M9
Qual è l’obiettivo della mostra?
Documentare, attraverso immagini e testi, i motivi e i momenti essenziali della cultura del cibo nell’Italia degli ultimi cinquant’anni (oltre a immaginare qualcosa sul futuro che ci attende). I materiali esposti sono tanti, con l’ambizione di stimolare un’attenzione e una partecipazione attiva da parte dei visitatori, pensati come co-protagonisti del percorso espositivo. Un percorso aperto, libero, che però procede con una logica precisa, da un ingresso che presenta i temi essenziali e definisce alcune parole-chiave legate al gusto e al cibo, fino all’uscita che apre sul futuro. In mezzo, la molteplicità di prospettive che accompagnano il cibo dal territorio alla tavola, attraversando mercati, cucine, tavole. Noi speriamo che la molteplicità e varietà dei materiali esposti non occulti, ma valorizzi questo percorso.
Come si snoda il percorso e quali materiali avete scelto per raccontare questa storia?
Il percorso è diviso in tre parti: un vestibolo in cui, con leggere pennellate, ricordiamo alcune tappe salienti della storia della gastronomia italiana e presentiamo un glossario fondamentale legato al “gusto”. Una parte centrale suddivisa in “stanze del gusto”, che collettivamente lo affrontano (e provano a definirlo) attraverso diversi terreni di gioco: filiere e biodiversità, casa, ristorante, ristorante “diffuso”, design, industria, flussi migratori, esportazione, ambiente e spreco, salute. Ci siamo divertiti con i materiali: non possiamo rivelare troppo, ma non aspettatevi i soliti oggetti… La parte finale racconta il futuro, secondo le modalità descritte prima. Tutto intorno corre un perimetro di grande impatto visivo che, tra locandine, fotografie, riviste, guide, trasmissioni televisive d’antan e contemporanee, e video tratti dai digital rappresenta in maniera esplosiva l’evoluzione del racconto del gusto. È il grande abbraccio che tiene tutto insieme. Perché non esiste gusto senza il suo racconto.
In base a quali criteri è stato scelto l’arco temporale da indagare?
Il punto di partenza è quello della svolta. Nella cultura del cibo, come in tutti gli aspetti della vita, gli Anni Settanta del secolo scorso segnano la trasformazione dell’Italia da Paese agricolo a Paese industriale. Da Paese di contadini a Paese di cittadini. Ciò accade fra molti traumi (di cui Pasolini fu interprete commovente) e innesca un’intensa dialettica fra tradizione e modernità, antico e nuovo. L’idea della mostra nasce dal desiderio di capire – e di illustrare – come tutto questo è avvenuto, come gli italiani sono riusciti a costruire un rapporto nuovo con il cibo, conservando però importanti valori legati alla propria storia. La mostra vuole evocare anche questa storia: perciò il 1970, il punto di partenza, è anche un punto di arrivo.
RELAZIONI E IDENTITÀ ATTRAVERSO IL GUSTO
Il rapporto con il cibo racconta molto di una società. Questo è più vero in Italia? E cosa dice degli ultimi cinquant’anni del nostro Paese?
La cultura e il culto del cibo sono da sempre centrali per gli italiani, ma non siamo gli unici a vivere questo rapporto in maniera così totalizzante (Francia e Paesi di cultura ispanica non sono certo da meno). Ciò che forse rappresenta un’unicità è quanto questo rapporto definisce la nostra identità in relazione al mondo. Tanti, al di fuori del nostro Paese, pensano a noi attraverso la simbologia della nostra cucina. Negli ultimi cinquant’anni il nostro legame a doppio filo con la tavola si è evoluto e consolidato, complice anche un’evoluzione del ristorante, sul doppio binario della ristorazione “formale” e di quella da trattoria. Mentre si moltiplicano i format e le esperienze possibili, la cucina di casa comincia a riflettere alcuni elementi di quella da ristorante; quest’ultimo da parte sua rilegge in maniera contemporanea la tradizione, e affronta temi legati a sostenibilità e sociale. Pandemia permettendo, uno degli elementi fondamentali della nostra tavola sembra essere ancora la convivialità, dentro e fuori casa.
L’Italia dei campanili è una ricchezza per questa analisi o rischia di frammentare eccessivamente la riflessione? Esiste un gusto italiano?
Qualcuno si ostina a sostenere che non si può definire “italiano” l’insieme composito di particolarità locali che caratterizzano la nostra cucina. La scommessa di questa mostra è sostenere il contrario: che una cucina e un gusto italiano esistono, perché proprio quelle particolarità ne costituiscono l’ossatura. I campanili sono mille ma non sono isolati né autoreferenziali, ma costituiscono – da secoli – una rete di saperi e di pratiche che si conoscono, si confrontano, si integrano. La cucina e il gusto italiano non sono la semplice somma, ma la moltiplicazione delle diversità locali, condivise in un comune sentimento della cucina. Nel nome di una straordinaria e irriducibile biodiversità culturale.
L’immagine tradizionale della cucina nazionale moderna è cambiata. Come ci aiuta questo processo a riconoscerci e a determinarci all’estero? C’è ancora necessità di combattere contro gli stereotipi?
I nostri chef si stanno emancipando dal principio fondamentale della nostra cucina – la nonna – senza perdere l’interesse e il rispetto per la tradizione, e anche i punti di riferimento della ristorazione più ricercata (Francia e Spagna) sembrano stemperarsi in un tentativo corale di trovare una nuova grammatica che sia contemporanea e al contempo “nostra”. All’estero, tuttavia, sopravvive un’immagine piuttosto stereotipata della nostra cucina, un’idea di canone rustico, folcloristico. L’Italia che cucina, in casa o ai fornelli di una trattoria o di un tre stelle Michelin, è ben più di un piatto di tortellini in brodo o di una grande cacio e pepe. È un’Italia costruita su una triangolazione potente tra gusto, ingrediente e tecnica, che propone un ventaglio di esperienze e interpretazioni inaspettate tutte da scoprire, senza dover rinunciare al gusto e allo “star bene a tavola”, che per noi restano centrali. La sensazione è che il pubblico abbia paura dell’Italia che va oltre la lasagna: forse pensano che l’alternativa sia una lasagna liofilizzata. Per fortuna non è così.
IDENTIKIT DEL GUSTO
Cos’è il gusto? Quanti significati possiamo attribuirgli? E quali aspetti sono analizzati dalla mostra?
Il gusto è un’esperienza complessa, che nasce dall’incontro fra soggetto e oggetto, mangiante e mangiato. Non è il sapore, che abita nel cibo, né il senso che lo percepisce. È ciò che accade quando le due cose si incontrano. È il nostro rapporto con il cibo, e più in generale con la vita. Non per nulla usiamo quella parola, gusto, per ogni sorta di esperienze, fatte attraverso tutti i sensi: la musica, l’arte, la letteratura… Gusto è il modo di stare al mondo. Se abbiamo scelto questa parola come emblema della mostra a M9 è proprio per trasmettere l’idea che stiamo parlando sì di cibo, ma anche di molto altro. Di molto altro attraverso il cibo, in cui si condensano valori e significati di ogni genere.
Le principali conquiste dell’Italia a tavola? E le aspettative disattese?
La cucina italiana, grazie alla molteplicità di esperienze che l’ha costruita, si è sempre distinta per ricchezza e varietà. Su tutto, due cose soprattutto ne rappresentano la forza e l’identità. La prima è la pasta, vera metafora della cucina e della cultura italiana: l’unità nella diversità. Un prodotto, mille modi per farlo e prepararlo; una parola, mille modi per definire le sue forme. La seconda conquista è la capacità tutta italiana di valorizzare le verdure. In entrambi i casi si può leggere, con limpida chiarezza, la matrice popolare del gusto e della cucina italiana. Una costruzione “dal basso”, che ne ha garantito il rapporto con i territori e con le culture locali. Arrivando fino all’alta cucina, alla fantasia degli chef che trasformano in eccellenza la normalità quotidiana, senza mai tradirla. Dove siamo ancora profondamente indietro è nel dialogo con le altre culture: siamo acerbi nell’integrazione a livello sociale e lo siamo anche a livello gastronomico. La contaminazione è ancora superficiale, così come lo è la nostra conoscenza delle cucine più lontane da noi. Curioso per un Paese la cui identità gastronomica è stata in parte definita dalle dominazioni straniere e dall’adozione di ingredienti che arrivano dall’altra parte del mondo.
SPUNTI PER IL FUTURO NEL SEGNO DEL GUSTO
La narrazione del gusto media un tema complesso per la molteplicità delle sfere di interesse che tocca. C’è qualche aspetto che negli ultimi anni è stato lasciato indietro e meriterebbe più attenzione?
Mancano occasioni di contrasto costruttivo e approfondimento. Sotto il profilo della critica gastronomica, in Italia non esiste una vera “scuola”, né un numero sufficiente di voci capaci di analizzare un’esperienza con competenza e autonomia. Per poter criticare occorre saper articolare un pensiero e motivare una posizione scomoda, e non tutti sono in grado (o hanno voglia) di farlo. Questo, però, appiattisce il dialogo e non rende un servizio al pubblico. Sotto il profilo del giornalismo enogastronomico e alimentare, in generale, manca spazio per le voci “remote” – quelle, per esempio, delle minoranze che sono di fatto rappresentate a tutti i livelli delle nostre filiere del cibo. D’altra parte, questa mancanza di diversità tra le fila di chi scrive, che si riflette in una minore attenzione dedicata alle storie di diversità, rispecchia né più né meno la società italiana. Se, invece, parliamo di rappresentazioni mediatiche del gusto, attraverso l’immagine fotografica o il video, abbiamo uno straordinario potenziale inespresso, quello del documentario. Poiché non ci mancano i talenti, sarebbe bello che dall’Italia uscissero produzioni in grado di competere in maniera efficace sul mercato estero. Un grande format seriale sulla pizza lo dovevamo fare noi, non gli americani!
Vi siete spinti a immaginare il futuro. In che direzione stiamo procedendo e quali saranno gli elementi chiave?
È difficile immaginare il futuro, praticamente impossibile fornire risposte certe. La nostra sezione sul futuro esplora scenari possibili, dal design applicato alla cucina alle nuove filiere agricole alla sperimentazione nello spazio e su pianeti alternativi, presentando una selezione di progetti di grande suggestione, con la collaborazione di grandi istituzioni e poli accademici mondiali, e stimolando la riflessione attraverso una serie di domande aperte e di piccole/grandi provocazioni. Culminiamo con una considerazione sugli spaghetti del futuro: che forma assumerà da qui a trent’anni il piatto preferito degli italiani?
‒ Livia Montagnoli
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