Futuro Antico. Intervista a Romeo Castellucci
La rubrica di Spazio Taverna declinata al futuro cede stavolta la parola a un caposaldo del teatro italiano contemporaneo, Romeo Castellucci
“Eviterei e vorrei invitare a evitare la credenza per cui gli artisti siano persone più dotate degli altri per interpretare gli eventi della storia e della cronaca, per una supposta loro capacità profetica. Non è così, evidentemente”. Con queste parole il regista e scenografo teatrale Romeo Castellucci (Cesena, 1960) commenta il ruolo degli artisti. E svela molto altro in questa intervista.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Tutto ciò che è fuori dalla mia pelle, ma anche l’arte antica, celebrata nei musei.
Qual è l’opera che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Se intendi una mia opera allora direi Amleto. Uno spettacolo del 1992. A quell’epoca avevo deciso di farla finita con il teatro e come saluto finale avevo deciso di dare l’assalto al suo hard-core. Ho scavato con tutta la megalomania infantile necessaria per recidere la sua radice. Ovvio, non avrebbe funzionato. Non mi aspettavo un ribaltamento di senso così profondo. Non solo non avevo tagliato le radici ad Amleto, ma il confronto aveva messo a nudo me. Volevo liberarmi dalle strutture retoriche e qualcosa ‒ una potenza, certamente ‒ mi ha costretto a rimanere sul cammino della finzione, con la forza tremenda di ciò che volevo combattere: la retorica classica.
GENIUS LOCI E FUTURO SECONDO CASTELLUCCI
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Nessuna. Essere nati qui e in questo tempo non ha rilevanza e non ne ha per lo spettatore che assiste a ciò che oso presentare. Il teatro combatte l’assolutismo della realtà, lotta con il verbo essere, lotta contro questo corpo, che è il mio; combatte questa lingua, questo tempo e, infine, questo luogo. A nessuno interessa il mio ombelico. Su un palco, come Flaubert, io sono donna, sono africano, sono lesbica esquimese, sono antico sumero, trasmigro nella forma e attraverso questa rivelo le catene morali dell’essere.
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Come un greco antico credo nella curvatura del tempo. L’arte attinge da ogni punto sulla sua circonferenza; la sua linea non è progressiva, non è una retta ma procede per scarti, arrivando anche a gettarsi all’indietro. Questo indietro, spesse volte, significa un avanti. La parola “antico” è certamente una parola da liberare; non risiede affatto nella nostalgia del passato essendo, appunto, ovunque. È la sorgente di ogni agire, e non solo in senso artistico. La contemporaneità, invece, è già, da sempre, vecchia, e parecchio noiosa.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Non è per una falsa modestia, ma preferisco astenermi dal dispensare consigli. Ritengo di non avere niente da dire. Oggi dare consigli ai giovani mi appare ineffettuale e paternalistico. Io direi: “Ragazzo, arrangiati”.
CASTELLUCCI, IL SACRO E L’ARTE
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Non ho competenze per parlare di questi argomenti in chiave sociologica. Io agisco e vivo nel Teatro, il luogo dove si preparano le menzogne più sofisticate. La finzione è un campo in cui si sperimentano vite non possibili sul piano della realtà. Per questa ragione, come sosteneva Gorgia, la finzione è la via sapienziale che ci libera dal peso della verità. Sui palcoscenici ‒ i luoghi che bazzico ‒ la parola sacro ha invece una tremenda importanza, seppur nel bagliore di un riflesso lontano. In teatro si coglie ancora il rapporto al sacro là dove vi è un corpo di attore. L’attore infatti ritorna sulla scena, ma solo come riflesso abissale dell’animale sacrificale. La violenza rimane, ma è trasfigurata da un nuovo coltello, quello dello sguardo dello spettatore.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Il futuro non è un punto da raggiungere ma un orizzonte che si muove al nostro passo e per definizione irraggiungibile. Detto ciò, vorrei aggiungere che io sono un tecnico dell’arte e solo su questo potrei forse dire qualcosa. Eviterei e vorrei invitare a evitare la credenza per cui gli artisti siano persone più dotate degli altri per interpretare gli eventi della storia e della cronaca, per una supposta loro capacità profetica. Non è così, evidentemente. Ma occorre camminare. Dove non importa.
‒ Ludovico Pratesi
https://www.societas.es/
www.spaziotaverna.it
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