La guerra in Ucraina, il cancro e l’arte. Le riflessioni di Salvatore Iaconesi
Artista che ha fatto dell’open source e delle dinamiche di relazione i suoi strumenti, Salvatore Iaconesi paragona il proprio cancro alla guerra in Ucraina. Ecco quali sono i punti in comune
In questi giorni drammatici, con Oriana, siamo a Torino. Paradossalmente immersi in cose belle (la presentazione del nostro ultimo libro al Polo del ‘900, la nuova mostra di Obiettivo all’Università), passeggiamo per la città nel vento freddo della mattina. E parliamo. All’ordine del giorno ci sono tre cose: la guerra in Ucraina, il mio cancro e una conversazione molto intensa sull’arte e il modo in cui la facciamo. Queste tre cose, così apparentemente diverse, come vedremo, non sono separate.
Iniziamo dal mio cancro. Quando mi sono ammalato, nel 2012, ho iniziato La Cura: la performance con cui, insieme a Oriana e alle miriadi di persone nel mondo che vi hanno partecipato, abbiamo riposizionato la malattia nella società.
La Cura non avrà mai fine perché è un modo di stare al mondo e di avere a che fare con la complessità e i confini: dei nostri corpi, delle identità, dell’ambiente. È la nostra basagliata, e implica l’essere disposti a fare una cosa che nella nostra società è praticamente inconcepibile: perdere il controllo. Del tuo corpo, di quei confini. Per la coesistenza. L’arte che pratico e condivido con Oriana è l’open source estremo, il cui modello è vivo proprio perché incompleto, a bassa risoluzione: per questo, richiede l’attivazione, la presenza e la performance degli altri. Non un approccio paternalistico, ma ecologico. Anche quando si tratta del “mio corpo”, del “mio cancro”.
Oggi, mentre la guerra incombe, conviviamo con una recidiva. È iniziata nel 2020 in mezzo alla pandemia, e la stiamo tenendo sotto controllo con tutti i mezzi della medicina e della tecnica. Anche questa è una guerra, solo che è combattuta sul mio corpo. E, come in tutte le guerre, ci si fa male, si muore e si sopravvive.
Un giorno di chemioterapia mi sono trovato a parlare in un corridoio col mio neurooncologo e gli ho chiesto circa: “Ma cosa succederebbe se mi lasciassi invadere?“. La risposta è in sintesi: morte e distruzione. Non ci sarebbe più spazio per tutte e due le tipologie di cellule (le “mie” e quelle “del cancro”) e inizierebbero a succedere delle cose spiacevoli: la compressione e l’aumentata pressione mi causerebbero attacchi epilettici; le risorse energetiche diventerebbero insufficienti (perché il cancro vascolarizza, e perciò ruberebbe risorse energetiche e di nutrimento alle altre cellule del mio cervello); oltre ad alcune tossicità intrinseche che derivano della presenza di queste cellule mutate. Ma soprattutto: spazio e risorse “economiche”, dove “economia” allude alla casa, all’ambiente, a ciò che serve per abitare. Insomma: una condizione simile all’Ucraina. Ho l’Ucraina in testa.
LA GUERRA IN UCRAINA COME IL CANCRO
L’invasione ucraina, come quella nella mia testa, ruba spazio vitale e risorse energetiche/alimentari/etc. e introduce “tossicità” (gli impatti su diritti, libertà, la violenza, la morte). Alla base di questa invasione non ci sono Putin, la Nato e l’Unione Europea. C’è, però, un parallelo militare evidente nelle nostre culture: tanto studio e tanti investimenti sulla diagnostica (con medici e servizi segreti che usano praticamente le stesse tecnologie: imaging, computer vision e IA); e quando si identifica una invasione si tenta di reciderla, in medicina con la chirurgia, le terapie irradianti e le chemioterapie, in guerra con missili e sanzioni. La verità è che non si sa bene “chi/cosa” ci sia alla base del mio cancro. E, probabilmente, questo squilibrio fra l’investimento nel riconoscere e “combattere” il cancro rispetto a occuparsi dei perché, esiste per motivi molto simili all’esistenza di queste guerre. La risposta, in buona misura, è la stessa: il nostro stile di vita. O, almeno, quello che pensiamo debba essere il nostro stile di vita. La nostra immaginazione di cosa possa essere il nostro stile di vita: quanto e cosa immaginiamo socialmente di poter/dover/avere diritto a consumare, di come è fatto l’abitare, di qual è il modello di successo cui ci ispiriamo, delle nostre aspettative su presente e futuro.
Ritorniamo al colloquio nel corridoio dell’ospedale. Io rispondo al mio carissimo neurooncologo: “E quindi, se il problema fosse di spazio/geometrie e risorse, non sarebbe possibile, per esempio, cambiare la forma del mio corpo – del mio cranio, in questo caso – per creare più spazio e usare le tecnologie per creare una maggior disponibilità di risorse?“. Stavo proponendo (immaginando) una soluzione “ecosistemica”, basata sulla possibilità di coesistenza dinamica: non Salvatore vs il suo cancro, ma Salvatore e il suo cancro. Fino a mettere in dubbio la forma del corpo “normale/normato” per cercare altre possibilità.
Anche perché, se avete notato quando ho parlato delle “mie” cellule e di quelle “del cancro”, ci ho messo delle virgolette: separarci in modo netto non è così scontato. Stiamo parlando di mutazioni progressive, e stratificate: un gradiente in cui la trasformazione da “me” al “cancro” avviene nel continuo, non in maniera discreta. Passando di nuovo dalla mia testa all’Ucraina, in un altro tipo di mutazioni che si stratificano nel tempo e nello spazio delle relazioni, anche i confini fra le nazioni e le culture sono tutt’altro che semplici da definire. Su queste “linee” nascono liti, incomprensioni, amori, amicizie, famiglie, parentele e altre familiarità. E le mutazioni avvengono di continuo: anche lontano da questi bordi, l’identità vive sempre di ambiguità e di possibili molteplicità, trasportata dall’informazione e dalla comunicazione, oggi più che mai. Se è sempre stato difficile distinguere un possibile “noi” da un “loro”, nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso sta diventando impossibile: farlo richiede una forzatura, un esercizio di dominio, la violenza.
La guerra è un esempio perfetto. Fare la guerra è un atto di dominio estremamente violento in cui si afferma: “il confine è questo, quelli sono gli altri, bombardiamoli”. Che sia coi missili, col bisturi o con la comunicazione è la stessa cosa.
LE REGOLE DELL’ECOLOGIA
D’altronde i confini si possono creare in molti modi. Se la guerra lo fa con le bombe, l’ecologia crea confini dinamici e ricombinanti con la relazione. Nell’ecologia la definizione dei confini dipende dalla possibilità di coesistenza di tutti gli attori presenti. Stiamo bene attenti: non sono tutte rose e fiori. Anche le relazioni ecologiche sono relazioni di potere, ma di poteri dinamici, che si bilanciano a vicenda, omeostatici, complessi, diffusi. Il dominio è il completo sbilanciamento: la fine dell’ecologia. Così come lo è il consenso, ovvero quella particolare forma di dominio basata sul conseguimento della maggioranza. Ci si fa male anche con l’ecologia, ovviamente. Si soffre, si muore e ci si suicida. Ma si è presenti e sensibili: vivi, desideranti e in divenire. Si sente. E proprio questo sentire ci fa evolvere. Il dottore, nel corridoio, mi guardava stupito: “Cosa intendi?”. “Intendo che non c’è scritto da nessuna parte che la mia capoccia debba essere fatta proprio in questo modo. Magari le si potrebbe cambiare forma, che con il design digitale si possono fare cose impensabili pochi anni fa, anche dinamiche e trasformabili progressivamente, così da creare più spazio. E si potrebbero aggiungere protesi tecnologiche se per esempio dovesse servire rifornire di energia e nutrimento delle zone specifiche del cervello. E queste cose potrebbero essere belle. E i malati, tra cui io, mentre ci guadagniamo 5 o 10 anni di vita, potremmo addirittura vantarcene. Magari ci finiamo alla Biennale perché la nostra capoccia è un’opera d’arte”.
Il dottore era ancora dubbioso. Io continuo: “Ma perché, non c’è nessuno che si occupa di queste cose? O di simili?”. “Che io sappia, no.” Il realismo. E i danni che il realismo fa alla “capacità di immaginario”: Mark Fisher ce lo ha insegnato.
Il realismo rende quasi impossibile pensare qualcosa che non sia compreso nel realismo stesso. Quando “innovazione” ed “evoluzione” sono due termini “trasgressivi”: ci si “muove oltre, al di là”, anche “fuori di sé”, per trovare un diverso abitare.
L’Arte ha questa capacità. Magicamente, misteriosamente, danzando nei territori incerti delle nostre esistenze per esplorarli e farci sentire. Cose o soggetti troppo grandi, assenti, strani, troppo piccoli, fuori posto, paradossali, troppo presenti. Cose che con tutti questi e altri difetti o eccessi ci fanno letteralmente “impazzire”, “uscire fuori di sé” e, quindi, avere “esperienza dell’Altro”, che è un altro modo di dire per “relazione”.
Ogni opera d’arte è una piattaforma per l’espressione degli Altri, che non sono mai passivi: interpretano, raccontano, secondo le proprie culture e le proprie diversità. Che si uniscono nell’opera, anche nel conflitto.
ARTE E OPEN SOURCE
Io e Oriana, negli anni, abbiamo cercato di portare questa impostazione all’estremo: prima del centro di ricerca “HER: She Loves Data” e oggi del “Nuovo Abitare”, siamo nati come “Art is Open Source”. L’arte per noi è open source in senso letterale: ogni opera è concepita per avere una qualche possibilità di diventare una piattaforma aperta per l’espressione di altri, dell’Altro, e per far sì che queste espressioni si possano incontrare, scontrare, amare, odiare, e tutto quel che c’è nel mezzo. Una Ecologia della Relazione e dell’Immaginario oltre il realismo, che ho mutuato dalla cultura dell’hacking scrivendo codice aperto.
È il modo di trasformare l’arte in una sorgente generativa, e di avere una qualche speranza di tramandarla. Per questo le nostre opere d’arte, spesso, sono workshop, summer school o addirittura organizzazioni e aziende. Cose in cui al centro non ci siamo noi, ma la relazione. Che è un bellissimo modo per dire che l’obiettivo delle opere è la capacità di perdere il controllo: tanto più perdi il controllo, tanto più l’opera è un successo. E di cose peculiari ne succedono quando un’opera è fatta così. Ci sono state organizzazioni che hanno preso le nostre opere e hanno detto che sono invenzioni loro e che ci hanno sviluppato dei business. Ci sono soggetti che hanno preso parole e concetti e se ne sono appropriati, oppure ne hanno distorto l’interpretazione rispetto a quelle originarie (autentiche? Non ci fidiamo mai di questo termine), e tante altre cose e situazioni. Va tutto bene: più se ne perde il controllo, meglio è. Più si riesce a uscire da sé meglio è. È quello che porta l’innovazione e l’evoluzione. Con Oriana parlavamo proprio di questo a Torino, confrontando la nostra disponibilità a perdere il controllo – a poter perdere i nostri confini – e come tutto questo fosse al centro della nostra diversità e alcune volte dei nostri conflitti. Una discussione profonda e radicale da cui è emerso questo articolo.
Ma torniamo al cancro e all’Ucraina, perché il modo di trattare questi “confini” così diversi tra loro è molto simile, ed è ispirato al dominio piuttosto che all’ecologia: l’impossibilità della relazione e l’assenza dell’immaginario che una relazione possa esistere. La complessità e il conflitto (e, quindi, la possibilità di evolversi/adattarsi che è alla base della co-esistenza) sono alla base dell’ecologia. Il dominio (come il realismo) non ammette complessità né conflitto.
Chissà se governi e amministrazioni riusciranno a ispirarsi a questi concetti ecologici, magari attingendo proprio dall’arte, o se l’arte è destinata a essere un palliativo. Non lo sappiamo. Sappiamo solo che sarà un peccato se non dovesse avvenire. Il realismo in cui ci siamo incagliati, come se fossimo bloccati nelle sabbie mobili – quello delle “soluzioni concrete”, quello che fa l’occhiolino all’arte per estrarne qualche soldo, qualche emozione o qualche like anziché per contribuire a comporre diverse possibilità e strategie – ci rende molto difficile anche solo immaginare modelli differenti. Questo tipo di discorso vale a tappeto: per l’Ucraina quanto per il mio cancro e tutto quello che ci sta in mezzo, dal cambiamento climatico alle pandemie.
Stiamo raccogliendo esattamente ciò che abbiamo seminato.
‒ Salvatore Iaconesi
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