Futuro Antico. Intervista sul domani ad Andrea Cortellessa
La rubrica curata da Spazio Taverna cede la parola ad Andrea Cortellessa, invitato a ragionare sul futuro. Lui è un critico letterario, ma qui si parla tanto anche di arte
Quali sfumature e peculiarità ha il futuro nello sguardo di un critico letterario? La risposta è in questa intervista ad Andrea Cortellessa (Roma, 1968), che spazia da Burri a Pasolini per interrogare il presente e guardare al domani.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Quando avevo 28 anni vidi una grande mostra di Burri al Palazzo delle Esposizioni di Roma, era l’anno dopo la sua morte. In particolare mi colpì con violenza un suo lavoro: un Ferro che si squarcia lasciando intravedere, sotto, qualcosa di rosso organico. A distanza di tanti anni ho rivisto quel lavoro alla Fondazione Cini e ne sono stato di nuovo emozionato, ma in maniera diversa. Questo secondo incontro mi ha fatto riflettere su come alcune opere scandiscano la nostra vita, ce la taglino letteralmente a pezzi.
Quel lavoro di Burri per me rappresenta ciò che potremmo chiamare, alla maniera di Michel Leiris, una “breccia”: certe opere hanno questa forza, questa violenza, la capacità di creare una commessura nel reale che consente a tratti di gettare uno sguardo su quello che non si può vedere. L’opera altrui per me è quella breccia, una ferita che non si rimargina; puoi cercare di capirla, di razionalizzarla, di interpretarla (e se sei un critico hai degli strumenti per farlo), ma in realtà non riesci mai a concettualizzarla del tutto, ad anestetizzarla. Ed è quel sangue che continua a scorrere, come quello di San Gennaro, che ti tiene in vita in effetti.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”, dice Pasolini nelle vesti di un allievo di Giotto nel Decameron.
Premettendo che non mi sono mai riconosciuto la capacità di poter aggiungere qualcosa al mondo (secondo l’etimo della parola “autore”), gli unici progetti a cui tengo sono quelli che non sono riuscito a realizzare, quelli restati allo stato di progetto. Negli ultimi venticinque anni ho accarezzato a lungo due sogni in forma di libro (e quando uso la metafora antiquata dell’accarezzare alludo certo a un infinito intrattenimento che ha qualcosa di onanistico). Questi due progetti avrebbero dovuto significare a me stesso quello che per me hanno significato, rispettivamente, mio padre e mia madre. Posso citarne solo i titoli ideali. Il primo, dedicato a mio padre, si chiama Turisti di guerra; il secondo, che è nato molto tempo dopo ed è legato in maniera ancora più obliqua e irrispettosa a mia madre, si chiama Gli specchi, la morte. Il primo riflette un’ideologia di oltre vent’anni fa che non mi appartiene più, non potrei mai pensare di riprenderlo. Il secondo è più recente e riflette abbastanza il mio modo di essere attuale; ma ci sono ottime probabilità, date le premesse, che rimanga a sua volta un aborto. Il che, pensando agli errori commessi da mia madre a partire da quello di darmi al mondo, mi pare il suo destino più appropriato.
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Mi piacerebbe poter rispondere con la secchezza con la quale vi ha risposto Roberto Cuoghi, cioè “nessuna”. In realtà per quanto mi riguarda il motivo è più banale: un critico, se è davvero un critico e non un autore mascherato, non ha un “suo” luogo: le opere che studia e che ammira di volta in volta lo spostano, lo trascinano, lo ricollocano. In un’intervista Giorgio Manganelli, cioè l’autore che più mi ha condizionato, usa un’espressione del gergo marinaresco, vantage point: la posizione della vedetta che scruta sempre l’orizzonte, al di là degli oggetti che di volta in volta glielo nascondono. Una posizione che richiede di spostarsi continuamente: e proprio questo spostarmi è quello che chiedo alle opere. Non c’è quindi un luogo, anche se negli autori che studio e che amo riconosco quanta parte abbia il genius loci (per usare quest’espressione oggi giustamente discussa). L’idea è che il critico sia in sostanza chi viene portato a spasso. E questo dal punto di vista esistenziale mi soddisfa pienamente.
PASSATO E FUTURO SECONDO ANDREA CORTELLESSA
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Futuro Antico è una bellissima espressione, anche se Il futuro ha un cuore antico s’intitola un libro di Carlo Levi che trovo abbastanza discutibile; non c’è dubbio comunque che la “non contemporaneità del contemporaneo”, per dirla invece con Ernst Bloch, sia diventata negli ultimi anni per me un po’ un’ossessione. Un’ossessione è quella cosa informe che, a un certo punto del nostro percorso, incontra quella corrente di pensiero o quell’oggetto artistico che finalmente le dà una forma. Da quel momento in avanti, siamo portati a riconsiderare a ritroso il nostro percorso, con superstizione teleologica mirando a questo vantage point che abbiamo creduto di scoprire ma, in effetti, ci ha scoperto.
Questo concetto di non contemporaneità è una chiave di lettura che vale per tanta parte della modernità, senz’altro dal neoclassicismo e dal romanticismo in poi. Quindi senz’altro il futuro è ancora antico, per dirla con un autore a me più vicino, Emilio Villa: “Sarebbe arrivato il momento di lanciare questo grande ponte sul passato, che vuol dire sul futuro”. Villa studiava non solo l’arte del passato, a specchio di quella “odierna”, ma quella che chiamava “arte primordiale”, cioè le pitture rupestri protoumane, che sono quanto di più antico raffiguri l’essere umano, pitture che raffigurano gli animali e la morte, la loro e la nostra morte. Su queste radici così profonde e ambigue si è fondata non solo l’arte degli uomini ma anche la nostra identità, il nostro differenziarci dall’animale, il nostro sentirci vivi, il nostro esserne consapevoli.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Prima di tutto non saprei definire la mia strada, ma forse nessuno può definirla; farlo è solo un altro modo di tirarsi fuori dalla palude tirandosi per il codino, come il barone di Münchhausen di Zanzotto. “Caminantes, no hay caminos. Hay que caminar”: sono parole di Antonio Machado che già Luigi Nono e Andrej Tarkovskij hanno usato come titoli di loro opere.
CORTELLESSA E L’IDEA DI SACRO
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
“Sacro” è una di quelle parole che la mia tradizione ideologica e di pensiero hanno negato con grande forza. Ma probabilmente è proprio quanto si nega con tanta forza quello che consideriamo molto importante: solo chi è credente può bestemmiare.
Sacro per me è ciò che Walter Benjamin, come ci ha mostrato Giorgio Agamben, chiamava “nuda vita”: qualcosa che viene prima del diritto, ancor prima forse dell’espressione linguistica, qualcosa che si trova al confine tra umano e non umano, ed è forse il punto d’ingresso alla condizione umana. Una zona liminare, un limbo, una cosa che quando viene detta non c’è più (come la “verità” secondo il Pasolini di Che cosa sono le nuvole?).
Io mi dichiaro materialista e ateo; anche se ho grande ammirazione, e diciamo pure invidia, per chi crede. Credo sia la stessa ammirazione che provo per gli artisti, che sono tutti in qualche modo credenti. Quella di chi crede è una condizione limite che posso solo ammirare.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
È appena scoppiata una guerra che viene presentata come locale e invece divide di nuovo, come nel Novecento, due visioni del mondo che sono radicalmente incompatibili tra loro, o, diciamolo meglio col termine giusto, che ipocriti censuriamo sempre, due ideologie: versioni sfigurate dei loro archetipi classici, la democrazia liberale e l’autoritarismo nazionalista. Non siamo poi ancora usciti dalla pestilenza più grave dell’ultimo secolo. Di fatto viviamo nelle due crisi più importanti che abbiano conosciuto le ultime generazioni.
Nella modernità crisi come le due guerre mondiali non hanno prodotto alcuna catarsi. Hanno lasciato ferite profondissime, vuoti spaventosi, “generazioni perdute”, ma soprattutto hanno imposto la considerazione che nulla è stato più come prima. In questi casi l’unica cosa che possiamo fare è seguire l’esempio di Montale: “Essere vivi e basta / non è impresa da poco”.
L’artista tedesco Wolgang Staehle, volendo fare un remake o forse un reenactment di Empire di Andy Warhol, puntò le sue telecamere non sull’Empire State Building ma sul World Trade Center. E questo lavoro, proiettato sulle mura di una galleria di New York, ebbe la bella idea di farlo nel settembre 2001: così la sua opera incluse, senza poterlo prevedere, l’evento che vent’anni fa ha cambiato il nostro mondo in maniera imprevista e irreversibile. L’unico modo di prevedere il futuro è metterci nel vantage point di vederlo nel momento in cui si avvera; sicché restare vivi per vederlo è già molto più di quanto tanti di noi, dal futuro, si possano attendere.
‒ Marco Bassan
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