Futuro Antico. Intervista a Ginevra Bompiani
La rubrica curata da Spazio Taverna cede la parola alla scrittrice Ginevra Bompiani, invitata a riflettere sul futuro
Editrice e scrittrice, Ginevra Bompiani (Milano, 1939) mette in collegamento passato e futuro, offrendo qualche spunto per guardare al domani.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Il primo libro che ricordo di aver amato apparteneva alla collana di capolavori raccontati ai bambini, La Scala d’oro, e si chiamava I Cavalieri della Tavola Rotonda. Raccontava, naturalmente, le storie del re Artù e dei suoi Cavalieri. Ed era pieno di illustrazioni. Ricordo due cose soprattutto: i personaggi e le illustrazioni. Ce n’era una in particolare, che non solo ricordo, ma mi fa quasi lo stesso effetto di allora (avrò avuto sei o sette anni): si vedeva Lancillotto (il mio eroe preferito) che traversava il vuoto su un ponte di spade; non vi camminava sopra, ma avanzava appeso con le mani inguantate al filo delle spade. Sebbene i guanti fossero di maglia di ferro (o così mi pareva), pensavo che la lama li penetrasse e che i suoi palmi sanguinassero. Quest’immagine mi faceva – e mi fa ancora – rabbrividire. L’eroe andava a raggiungere la sua ‒ mia omonima ‒ amata, e sentivo la lama penetrare le mie mani.
Penso che questo sia il mio riferimento, anche se non ci penso mai: una storia raccontata con le parole e le figure, ma soprattutto col sangue.
Qual è il testo che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Credo che chiunque scriva si senta più rappresentato dall’ultima cosa che ha scritto. Così, comunque, è per me: mi ritrovo di più nel libro che si chiama La penultima illusione, uscito quest’anno da Feltrinelli. Potrei anche chiamarlo La penultima collusione, fra il presente e il passato. Perché di questo si tratta. Dell’intreccio fra la memoria del presente e quella del passato, l’una che penetra e illumina l’altra. E mi rappresenta, non tanto perché parla della mia vita, ma perché è il libro più libero che ho scritto. Penso di aver raggiunto questa libertà piano piano, un libro dopo l’altro. Forse ha semplicemente a che fare con l’invecchiare, col tempo, col declino, con l’essenza della vita che diventa sempre più visibile attraverso le smagliature.
Che importanza ha per te il genius loci nel tuo lavoro?
Il primo saggio che ho scritto si chiamava Lo spazio narrante, e parlava del ruolo dello spazio nelle opere di due scrittrici inglesi (Emily Brontë e Jane Austen) e una poetessa americana (Sylvia Plath). Quindi lo spazio mi è sempre sembrato un elemento narrativo importante. Ma per me lo spazio è soprattutto un luogo, il luogo che lo guarda, e cioè la finestra. Ho sempre cercato di scrivere davanti a una finestra, e lo faccio ancora, sebbene sia una posizione sbagliata per la luce; praticamente scrivo abbagliata dallo spazio sopra uno schermo in ombra. Ho sempre pensato, rispetto alle scrittrici e agli scrittori di cui ho parlato, che trovassero le metafore dietro le finestre. Lo dicevo in quel libro: la brughiera, il villaggio, il giardino offrivano il materiale immaginario. Le metafore sono una forma di genius loci. Quello appunto che si osserva stando alla finestra.
IL FUTURO SECONDO GINEVRA BOMPIANI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Penso che il passato abbia un cuore futuro. Più del presente. Il passato è come il passo indietro che fai per prendere la rincorsa. Direi che il passato è proprio la rincorsa del futuro. E penso che questa rincorsa sia necessaria: allunga la gittata del futuro. Oggi, mi pare, non abbiamo questa rincorsa, viviamo a ridosso di un futuro cieco, che non sappiamo immaginare.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
La mia strada? E quale sarebbe? Gli direi di intraprendere la sua. E non è facile trovarla. Ti addentri in un bosco fitto e ombroso, inciampi in un viottolino: è la tua strada? Da cosa lo capisci? Non sai dove ti porta; non sai se proseguirà o si fermerà fra i cespugli; non sai se ti è amica. Ma se continui a percorrerla, è la tua strada. È tutto qui: continuare a camminare, tenendo ben piantati i piedi sulla terra e le foglie che calpesti, come se a ogni passo formassero piccolissime radici, e ogni passo le strappasse. Non si tratta di volare sulla propria strada, ma di camminarla, un passo dopo l’altro, strappando, staccando, affondando: tre movimenti come quelli del nuoto. Non devi volare, semmai nuotare.
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Non so che cos’è la post verità. A meno che s’intenda la mistificazione, che ci avvolge come una pianta appiccicosa. E mi pare che in un’epoca di totale mistificazione, ogni parola che se ne stacca sia sacra.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Purtroppo no. Vedo che stiamo impaludandoci nel digitale, nel fantasmale, come quel personaggio del racconto di Forster The Machine stops, che vive rintanato nella sua camera, seduto su una poltrona con un telecomando che gli porta immagini di un mondo fittizio, perché gli hanno fatto credere che il mondo fuori è irrespirabile. Il nostro mondo è sempre più irrespirabile. Anche noi siamo infissi nella paura che i potenti ci sgomitolano, una dopo l’altra: la malattia, l’altro, la guerra.
Come si fa a resistere alla paura? Questa potrebbe essere un’idea fissa del futuro. L’altra idea riguarda la materia e il suo senso prediletto: il tatto. Toccare con mano, col corpo, usare il corpo per toccare e farsi toccare.
La terza è contro-immaginare. Immaginare quello che le figure non dicono, come il sangue sui guanti di Lancillotto. Immaginare la vita dietro lo schermo. Annusarla, palparla, gustarla, sbirciarla. Ri-raccontare le storie, ri-dire le parole che ascoltiamo, coglierle in flagrante, aver da ri-dire, tirarsi indietro, prendere la rincorsa.
– Ludovico Pratesi
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