Pensare-contro. In morte del filosofo Alessandro Dal Lago
Uno sguardo lucido sul presente caratterizzava l’approccio alla società e all’arte del filosofo e scrittore Alessandro Dal Lago, scomparso il 26 marzo 2022. A ricordarlo qui è l’amico e collega Marcello Faletra
Insofferenze (Prospero editore) è un recente libro di Alessandro Dal Lago, scomparso il 26 marzo all’età di 74 anni. Il titolo potrebbe bene illustrare la sua personalità e il suo percorso di filosofo, sociologo e scrittore. È stato un attento studioso di Foucault, di Hannah Arendt, di Rosa Luxemburg, di Simone Weil, di Simmel e Weber. Ma è stato anche autore di libri divenuti autentici classici come Non-persone (1999) ‒ una inedita lente d’ingrandimento sui fenomeni migratori, sull’odio razziale e sulle metastasi dei nazionalismi che imperversano dopo la caduta del muro di Berlino in Europa e altrove. E la sua indagine critica di militante, polemista e intellettuale impegnato non si è limitata al variegato campo disciplinare della sociologia, ha toccato anche il mondo della scrittura (caso Saviano) e dell’arte.
Libri come Mercanti d’aura (2006), Fuori cornice (2008), L’artista e il potere (2014) e Graffiti, arte e ordine pubblico (2016), tutti scritti a quattro mani con la sua compagna, l’artista Serena Giordano, hanno scandagliato il mondo dell’arte rovesciando punti di vista e scardinando luoghi comuni. Ma sono libri dove si guarda anche con un approccio disincantato all’arte come packaging comunicativo, ovvero mostrare le logiche che soggiacciono alla formazione (cornici) dei mondi dell’arte. In altre parole la messa a nudo delle logiche delle convenzioni che sostengono certe idee di arte, aura compresa. Di questa parola carica di storia Alessandro Dal Lago e Serena Giordano hanno rivelato il volto contemporaneo: cioè a dire che essa è una relazione d’effetto, come accade per le immagini sacre, le quali se sono tali è perché c’è la devozione, non il contrario. Ugualmente, è per gli 8601 diamanti dal valore di 50 milioni di sterline che il celebre teschio di Hirst è oggetto di fascinazione.
L’idea di aura come effetto di relazione è incisiva nella misura in cui il pubblico dell’arte è generico e difficilmente ascrivibile a una specifica categoria: nessuno sa più quale sia il pubblico dell’arte. In questa incertezza hanno la meglio i Mercanti d’aura.
Nelle loro riflessioni sull’arte emerge una dichiarata preferenza per quelle manifestazioni che debordano dai perimetri istituzionali del sistema dell’arte, come ad esempio gli ex-voto, che, per Sandro e Serena, non vanno ascritti solo a una lettura incorniciata nell’immagine del folclore religioso, ma, in tutt’altra direzione, in un dispendio rituale pop. Un ex-voto è più vicino alla Pop Art di quanto non si creda, sono, con le loro parole: “capaci di comunicare la cosalità della condizione umana”.
ALESSANDRO DEL LAGO DAL GRAFFITISMO ALL’INSOFFERENZA
La nostra amicizia ci ha portato a condividere interventi su aspetti comuni, come le politiche e le estetiche del graffitismo. Ma anche su problemi che transitavano dall’arte alla sfera sociale, come il pregiudizio sulla percezione sociale del diverso, che arriva a diventare immagine del mostruoso. In diverse circostanze e in varie città, ci siamo ritrovati insieme a parlare di graffiti. Condividevamo l’epica trasgressiva dei graffitisti contro la vulgata igienista delle città e la loro immagine di portatori di disordine pubblico ed estetico. Si trattava di contrastare il “volto estetico dell’ordine sociale”. In altre parole: chi decide l’immagine di una città? Imporre solo un certo tipo di immagini e impedirne altre è stato (ed è) l’intento di una specifica idea di ordine e di decoro che aderisce a essa e la sostiene.
In tutte le sue opere traspare un pensiero dissonante, inassimilabile a una forma sistematica. Sandro conosceva un altro mezzo preventivo contro qualsiasi sistema o idea fissa. Questo mezzo non è il presupposto di un’idea, ma la partecipazione diretta ai fatti da cui scaturisce poi una posizione, è un prender parte. Una scelta di campo. È, appunto, l’insofferenza che nasce da questo porsi in situazione, come avrebbe detto Sartre. Questa insofferenza, senza scomodare questioni filosofiche o sociologiche, è la diffidenza verso ogni forma di ragionamento sostenuto, di pensiero fondante, definitivo. Insofferenza verso i “benpensanti”, cioè contro i restauratori di concetti come “realtà” e “verità”, cascami metafisici recuperati come feticci; e insofferenza anche verso i nazionalismi che spadroneggiano nel vuoto di politiche europee, come quello digitale, culla di neo-nazionalismi emergenti e di derive antidemocratiche rispetto a cui sia le cosiddette sinistre che le destre si sono ritrovate sullo stesso fronte.
Insofferenza verso gli equivoci della parola populismo, come quella argomentata da Ernesto Laclau, ma che, secondo Sandro, è stata superata dalla visione populista delle destre neo-nazionaliste tese a difendere le identità culturali e a escludere ogni differenza sociale.
Questa insofferenza era praticata anche nel campo di un pensiero politico di sinistra. Condivideva con Rosa Luxemburg, con Franz Fanon e con Foucault il fatto che ogni sollevazione da parte degli oppressi è sempre legittima. Ed era insofferente verso la retorica dei “diritti umani”, dove gli “umani” sono a immagine dei bianchi dei Paesi ricchi. Le guerre degli ultimi trent’anni in Medio Oriente si sono fatte sotto la bandiera di questa espressione. (Per inciso: si stanno moltiplicando gli episodi di rifiuto di ospitalità degli ucraini di origine africana). Ai “diritti umani” preferiva “diritti dell’umanità”, la cui universalità implica l’estensione di questi diritti a tutti e il respingimento categorico della guerra come strumento di soluzione dei problemi. Un pensiero, questo, che è stato ampiamente illustrato nel suo opuscolo Pacifismo pratico (2016), (oggi di profetica attualità) al punto da mettere sullo stesso piano i bombardamenti di Falluja con bombe al fosforo con i terroristi della jihad: “Radere al suolo con le cannoniere volanti un quartiere popoloso di Falluja o di Grozny, o distruggere un villaggio afgano perché vi si nasconderebbero insurgent o ribelli , non è diverso – dal punto di vista degli effetti sui civili – dal far scoppiare un’autobomba in un mercato”.
“Ai ‘diritti umani’ preferiva ‘diritti dell’umanità’, la cui universalità implica l’estensione di questi diritti a tutti e il respingimento categorico della guerra come strumento di soluzione dei problemi”.
Rileggere questo libretto, oggi, aiuterebbe a schiarirci le idee sulla guerra in corso in Ucraina e sugli avvocati del riarmo. Ecco alcuni punti chiave: 1) “la democrazia non può essere esportata, tantomeno con la forza delle armi”; 2) “Abbattere regimi dittatoriali senza alcuna idea di cosa li sostituirà provoca una catena interminabile di conseguenze perverse” (vedi oggi la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq, ecc.); 3) “gli interventi armati suscitano un odio duraturo” ; 4) “L’asimmetria militare diventa antropologica” (la continuazione del colonialismo non solo con le armi e l’economia, ma con l’appoggio dei media che generano false convinzioni); 5) “La supremazia militare e tecnologica non comporta necessariamente la vittoria sul terreno” (il terrorismo di ritorno è un effetto di questa illusoria supremazia dalle conseguenza fatali).
La presunzione di imporre la propria cultura, argomentava Sandro, ha come effetto una specie di “tramonto dell’Occidente”, di cui oggi siamo, forse, testimoni impotenti.
Dal 2013 con la sua compagna ‒ Serena ‒ aveva deciso di stabilirsi a sud. A Palermo e a Trapani. La drammaturgia del paesaggio mediterraneo gli era congeniale nell’ambientare le sue storie, come quella tragica di Ismail, che tenta di salvarsi aggrappato a una gabbia di allevamento di tonni. Le rive lisce e scoscese, l’immagine dei porti, gli orizzonti senza fine con le isole sullo sfondo – vere zattere di salvataggio ‒, sono anche il paesaggio nel quale hanno luogo le stragi dei migranti.
Amava il gioco, dal calcio al biliardo. Il gioco come avventura e destino per lui rappresentava una specie di al di là della filosofia, con delle regole proprie. Il gioco è anteriore alle idee, come il riso, ma significa anche accettare la logica fatale del rischio. La nostra esperienza quotidiana non è fatta solo di idee o di sensazioni separate, ma anche di idee-sfida. In una società massicciamente integrata nelle sue funzioni e assottigliata nelle relazioni, la sfida apre a una specie di avventura che fa leva sulle chance; ma anche sulla libertà, che per un anarchico come lui significava praticare il terreno della gratuità quasi per decreto autocratico. In Sandro la sfida a volte si è confusa con la vita stessa.
E il gioco – come sfida e chance ‒ mette in campo intuizioni, calcoli, strategie, accorgimenti, dove il ragionamento e portato a confrontarsi col caso, e fa coesistere tutte queste cose simultaneamente con la piccola adrenalina della perdita o della vittoria. Il gioco per Sandro era un modo di perdersi negli altri. Attraverso il gioco i legami d’amicizia e le dispute su ogni cosa trovavano un’altra sponda dove stemperare i dissidi. Quante volte ci siamo trovati distanti o a polemizzare per un diverso approccio su argomenti di politica, di arte o problemi sociali. E quante volte, poi, ci siamo ritrovati dalla stessa parte. Platone nel Gorgia racconta che Zeus, avendo privato gli uomini dell’immortalità, volle fare loro uno strano dono: nascose la data della loro morte: si morirà, ma non sapremo quando. Che senso avrebbe una vita di cui si saprebbe la data di morte!
E così saranno sempre gli altri a raccontare il suo avvento.
‒ Marcello Faletra
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