I dimenticati dell’arte. Adolfo Baruffi, il regista censurato che rinnegò il cinema
È una storia di non compromessi quella che accompagna l’esistenza di Adolfo Baruffi, regista talentuoso nell’Italia del secondo dopoguerra. Che però scelse di interrompere per sempre il suo legame con la settima arte
Per gli esperti di cinema Adolfo Baruffi (Ferrara, 1926 ‒ Gambassi Terme, 2013) è un nome conosciuto, anche se misterioso, che porta con sé il segreto di una rinuncia a un mestiere amato e condotto con grande passione.
LA STORIA DI ADOLFO BARUFFI
Nato a Ferrara, a vent’anni Baruffi inizia a collaborare come giornalista con alcune testate locali come il Corriere del Po e la rivista Il Quaderno: grazie ai suoi articoli incontra un gruppo di intellettuali ferraresi, tra cui Florestano Vancini e Guido Aristarco.
Nel 1945 gira con l’operatore Antonio Sturla La pianura, un film rimasto incompiuto, e negli Anni Cinquanta prosegue la sua attività dietro la macchina da presa, come regista di documentari di matrice neorealista, dedicati alla vita quotidiana nell’Italia del dopoguerra, con un stile personale e poetico. Si tratta di piccoli gioielli che vanno da Uomini della pianura, Pomposa, Alluvione e Camionisti nel 1950, seguiti da Accademia militare (1951). L’amico Vancini ne rimane colpito, tanto da dichiarare che il giovane Baruffi “aveva dei numeri”, e lo chiama sul set di Delta del Po, il documentario dedicato al fiume girato da Florestano nel 1951. Nello stesso anno Baruffi realizza un piccolo capolavoro, Il postino di montagna, che racconta una giornata di un postino in un piccolo borgo in montagna, con il testo di Dino Buzzati.
Nel 1955 collabora con il cineasta Luis Trenker, regista del film Il prigioniero della montagna, ispirato al romanzo La fuga di Giovanni Testa di Günther C. Bienek, mentre gli autori della sceneggiatura sono Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini e lo stesso Trenker.
L’ADDIO AL CINEMA DI ADOLFO BARUFFI
Sulle ali del successo, Adolfo si lancia nella regia di un lungometraggio, Paternicillina (1957), che racconta la storia di un venditore ambulante che vende una pillola con uno strano potere: una volta ingerita dalle donne incinte, imprime sul petto del nascituro il nome del suo vero padre. Interamente girato in stretto dialetto ferrarese, secondo la volontà del regista doveva essere doppiato nei diversi dialetti delle città dove veniva distribuito, senza sottotitoli in italiano. La commissione della censura blocca il film, che per essere distribuito doveva essere doppiato o sottotitolato nell’idioma nazionale: davanti a questo ostacolo Baruffi lo ritira e la pellicola scompare. In seguito a questo bruciante fallimento, Adolfo rinuncia per sempre alla carriera cinematografica, sposa la sua aiuto regista Brunella Bentivoglio, dalla quale ha una figlia e si dedica alla produzione di scarpe messe in commercio dalla sua azienda AB film, la scarpa della diva. Cancella per sempre il suo passato di regista, del quale non parlerà nemmeno alla figlia: nel 1978 lascia Ferrara per Bologna, dove fonda una nuova azienda di scarpe, e nel 1987 si trasferisce a Gambassi Terme, dove muore nel 2013.
LA RISCOPERTA DI ADOLFO BARUFFI
Il suo nome ricompare nel 2020 grazie al documentario di Marco Berton Scapinello Paternicillina: storia di un regista dimenticato (2020). In questa occasione si riparla di Baruffi, definito “il Salinger di Ferrara”, e viene riscoperta la sua produzione filmica: “I suoi lavori presentano un’incredibile sensibilità, focalizzandosi su una poetica di inchiesta, volta a rappresentare, senza filtri, la drammatica situazione di povertà del paese da poco uscito dal conflitto. Si può quindi affermare che Baruffi (Insieme a Rossellini, De Sica e De Santis) sia tra gli iniziatori del neorealismo italiano”, scrive Luca Gambelli. Alcuni suoi documentari sono visibili su YouTube, a dimostrazione di un talento condizionato da un carattere poco incline ai compromessi.
‒ Ludovico Pratesi
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