I dimenticati dell’arte. Sirio Tofanari, lo scultore degli animali
Riscoperto solo in epoca recente, Sirio Tofanari ha trovato nel mondo animale il suo soggetto per eccellenza. Studiandone a fondo le peculiarità
L’interesse per gli animali gli arrivava dal padre, appassionato di caccia, tanto che a soli 14 anni realizza la statuetta di un cervo ferito. Purtroppo però già due anni dopo Sirio Tofanari (Firenze, 1886 – Milano, 1969), figlio di Ludovico e Rosa Salvi Ricciarini, rimane orfano di entrambi i genitori, e comincia a intraprendere la strada dell’arte, iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti della sua città natale, Firenze. Poco incline alla disciplina, dopo un solo anno abbandona i corsi e decide di viaggiare per l’Europa in cerca di ispirazioni. Nel 1906 è a Parigi e poi a Londra, dove passa molto tempo a osservare gli animali allo zoo e a studiarne l’anatomia al Natural History Museum, per poterli rappresentare nella maniera più realistica possibile.
LA STORIA ARTISTICA DI SIRIO TOFANARI
Dopo il suo ritorno in Italia, a ventidue anni comincia la sua carriera espositiva nel 1908 alla Mostra d’Arte Decorativa di Faenza, dove presenta alcune sculture di animali. Lo stesso anno, alla Promotrice di Belle Arti di Torino, il re Umberto di Savoia acquista una sua gazzella di bronzo, lanciandolo come artista animalier, alla pari di alcuni suoi colleghi come Rembrandt Bugatti, Felice Tosalli, Renato Brozzi o Guido Righetti. “La singolarità dell’età aurea dell’animalismo italiano sta nel fatto che questi scultori furono fortemente suggestionati dalla contemporanea pubblicazione degli scritti e degli studi di autori come Rabindranath Tagore, Rudyard Kipling e Romain Rolland”, sottolinea Alfonso Panzetta. E aggiunge: “Ma solo se studiata dal vero, coniugata a una lenta rielaborazione e osservando il modello antico, la raffigurazione degli animali, per gli italiani, diviene arte”. Negli Anni Venti Tofanari espone in tante occasioni, sia in Italia che all’estero: dal 1909 al 1936 è invitato regolarmente alla Biennale di Venezia, mentre nel 1916 presenta le sue sculture a San Francisco, nel 1923 a Buenos Aires e nel 1928 a Bruxelles, dove i reali del Belgio acquistano alcuni suoi pezzi.
“Gli animali non posano a comando”, spiegava l’artista, “con loro bisogna saper trovare l’attimo e saperlo sfruttare tutto, assimilarlo, distillarlo. E poi bisogna piacere agli animali: so cosa vuol dire passare le ore davanti ai soggetti senza rubare loro l’immagine con mezzi tecnologici, ma permettendo invece che ci regalino a poco a poco la loro anima”.
STILE E OPERE DI TOFANARI
Autodidatta, ha sempre sostenuto di non avere maestri, come ricorda il critico Arturo Lancellotti nel 1925: “Il Tofanari afferma che nessun artista esercitò mai alcuna influenza sul suo spirito. Gli si può credere sulla parola poiché il suo isolamento artistico è palese”. In realtà isolato non lo è affatto, anzi: amico di artisti come Galileo Chini, Antonio Maraini e Arturo Dazzi, vicino a critici come Ugo Ojetti e Roberto Papini, Tofanari viene invitato a esporre in una sala personale alla terza Biennale di Roma nel 1925, e sempre nella Capitale è presente sia alla prima Quadriennale (1931) che alla seconda (1935). Alla prima espone la scultura in marmo Tigre, mentre quattro anni dopo tre opere dedicate a primati come scimpanzé e orangutan. Negli Anni Sessanta si dedica soprattutto a bassorilievi in bronzo con soggetti religiosi, di tono più intimo e delicato. Dimenticato per decenni, la galleria del Laocoonte di Roma nel 2021 ha inserito le opere di Tofanari nella mostra collettiva Laocoon Zoo.
‒ Ludovico Pratesi
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