Futuro Antico. Intervista a Riccardo Falcinelli
La rubrica curata da Spazio Taverna cede la parola al graphic designer Riccardo Falcinelli, che si interroga sul rapporto tra libro, cinema, realtà virtuale e tecnologia digitale
Riccardo Falcinelli (Roma, 1973) è uno dei più apprezzati graphic designer italiani. Insegna Psicologia della percezione presso la facoltà di Design ISIA di Roma. Nel 2011 ha pubblicato con Stampa Alternativa & Graffiti Guardare. Pensare. Progettare. Neuroscienze per il design. Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato Critica portatile al visual design (2014), Cromorama (2017), Figure (2020) e ha curato Filosofia del graphic design (2022). Suo è l’attuale progetto grafico di Einaudi Stile Libero.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Di arti ne frequento ormai almeno due: la grafica, che è il mio mestiere ufficiale da vent’anni, e la scrittura, che è il progetto che mi appassiona di più in questo momento della vita. In entrambi i casi l’ispirazione l’ho sempre cercata al di fuori: la grafica è proteiforme, un po’ mestiere, un po’ mass medium, un po’ arte, non è un linguaggio puro e dunque non puoi che guardarti intorno. Nella mia formazione sono stati fondamentali la pittura e il cinema, non la grafica in sé: ho guardato a Pontormo e a Hitchcock, non subito a Munari. Anche perché la cosa che più mi interessa è l’aspetto registico, di messa in scena, anche quando sto disegnando la copertina di un romanzo. Lo stesso vale per la scrittura saggistica: ho guardato più ai documentari, ai film, che non ad altri scrittori. Certo, per quello di cui mi occupo (anzitutto la percezione visiva), Gombrich o Arnheim sono modelli da cui non puoi prescindere, ma la vera ispirazione è stata il John Berger televisivo o, più di recente, Mark Cousins con il suo The Story of Film.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Probabilmente Figure. Volevo scrivere un libro, rigoroso sul piano della ricerca, rivolto a un pubblico interessato ma non specialista e che si leggesse come si guarda un documentario o come si ascolta un talk. Mi hanno detto che ho fatto “divulgazione”, ma lo trovo un giudizio impreciso: non era questa l’idea. La divulgazione semplifica per un lettore comune, spesso finisce per elencare luoghi comuni, o per parlare solo degli artisti più conosciuti, mentre io volevo rendere accessibile un sapere a un lettore già sofisticato, ma che facesse tutt’altro. Volevo scrivere per qualcuno colto, magari coltissimo, ma che vivesse in un ambito diverso dal mio: immaginavo il lettore ideale tra gli economisti, i biologi, gli scienziati. Per questo mi interessava vedere fino a che punto un saggio potesse impiegare i codici dell’intrattenimento nel suo aspetto letterario. In fondo era un esperimento prima di tutto sulla forma libro, su un’idea di libro, ancor prima che sul suo tema.
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Sono romano, ho studiato in Inghilterra, ho deciso scientemente di vivere e lavorare a Roma. In principio era una situazione bizzarra: i miei ambiti di interesse sono il design e la comunicazione di massa, cose “milanesi” per tradizione. C’è pero da dire che quando ho iniziato a lavorare, alla fine degli Anni Novanta, il design e i suoi mestieri stavano cambiando: con l’avvento di internet prima, dei social network poi, è venuto meno il legame tra design e modernismo, idea che era stata centrale per tutto il Novecento. In fondo, Milano è sempre stata modernista nello spirito: il primo studio grafico (Boggeri, 1933) non poteva che aprire lì. Roma no. Roma è pittorica, scenografica nel senso di Bernini o di Cinecittà, o retorica in senso ciceroniano. Qui ci sono stati il cinema e la televisione, non il design. Eppure, in tempi narrativi come quelli che stiamo vivendo, questa vocazione romana per la messa in scena è una linfa interessante per il futuro del design. Insomma, credo di aver fatto bene a restare.
IL FUTURO SECONDO RICCARDO FALCINELLI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Non esiste nessun futuro senza passato. Su questo non ho dubbi. E non perché la storia sia maestra di vita, sia le nostre radici o altre idee simili ormai ridotte a slogan. C’è una ragione più semplice e pratica: la fantasia, le idee, la capacità di inventare o immaginare hanno bisogno di materiali da cui partire e il passato è un gigantesco deposito di scorte, di fonti. Non esiste fantasia al di fuori della cultura. L’idea che i bambini abbiano una fantasia spontanea e sorgiva è una stupidaggine, dovuta al fatto che non si osservano bene i bambini: la loro creatività è conseguenza del saper mettere in analogia le cose che scoprono ogni giorno, e da piccoli ne scoprono tante. In un certo senso i bambini sono sempre “colti” e usano la cultura per costruire associazioni imprevedibili. E poi, a proposito di passato e di design, mi piace la storia di Steve Jobs: al college segue un corso di calligrafia e tipografia e, poiché le misurazioni tipografiche si facevano in multipli di 12 (idea settecentesca di Francois-Ambroise Didot), Jobs decide che tutti i monitor avrebbero avuto una risoluzione di 72 punti pollice. Lo standard che ormai usano tutti. Se ci si pensa è meraviglioso: la risoluzione di tutti i nostri device è in debito con una scelta illuministica.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Studiare. Farsi una cultura. Non credo ci sia altro. In una società in cui in migliaia si improvvisano artisti, lo studio fa la differenza.
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Il sacro è fondamentale, significa dare senso alle cose, stabilire un valore, rivendicare il fatto che alcune esperienze hanno una densità maggiore di altre. Poi c’è chi lo vive in senso strettamente religioso, altri – come me – lo riconoscono anzitutto negli aspetti culturali. Però bisogna fare attenzione: troppo spesso nella società industrializzata si confonde il sacro con “l’esclusivo” o con il “glamour”, lo si tratta come un valore mondano. Il sacro più autentico è invece nel rapporto tra noi e alcune esperienze del mondo, è nel rispetto che decidiamo di dedicare alle cose.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Per quanto riguarda le immagini, c’è dietro l’angolo la realtà virtuale. Al momento è relegata al mondo dei videogiochi, ma diventerà presto un sistema più ampio e pervasivo, anche per le arti. Questo comporterà la fine della “finestra albertiana”, dell’idea che le immagini artificiali abbiano dei confini, dei contorni, delle cornici. Poi più che previsioni ho due desideri: mi piacerebbe che i cinema (che sono evidentemente in crisi) imparassero dai musei: sarebbe bello che proiettassero novità nel weekend e classici durante la settimana, magari in pellicola. Può sembrare un’idea da vecchia sala “d’essai” e invece potrebbe diventare iper-contemporanea. Le piattaforme streaming hanno dimostrato che c’è un grande interesse per i film del passato, film che la tv ci obbligava a guardare dopo la mezzanotte. Dobbiamo cambiare paradigma: immaginare sale cinematografiche più simili alla biblioteca o a internet. Ma in fondo a questo desiderio si lega a un’altra aspirazione: che si smetta di interessarsi al progresso come fine a se stesso e si pensi ai linguaggi estetici in senso storico. Le arti non sono l’elettronica.
– Ludovico Pratesi
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