I dimenticati dell’arte. Gino Rossi, il pittore nomade
Da Venezia a Parigi e poi in Bretagna e di nuovo in Veneto. Non ha conosciuto tregua la vita del pittore lagunare Gino Rossi, artefice di uno stile che non conosceva compromessi
Guardava alla pittura di Paul Gauguin e Vincent van Gogh, che aveva scoperto durante i suoi numerosi viaggi giovanili a Parigi in compagnia del suo amico Arturo Martini: forse aveva capito fin da allora che la sua vita sarebbe stata avventurosa, senza molti punti di riferimento. Eppure Luigi Rossi (Venezia, 1884 ‒ Treviso, 1947) era nato a Venezia in una famiglia benestante, figlio di Stanislao e Teresa Vianello: il padre era fattore del conte Enrico di Borbone-Parma, il quale aveva allestito una grandiosa collezione di arte orientale a Ca’ Vendramin Calergi, che il piccolo Luigi aveva certamente avuto occasione di visitare.
LA STORIA DI GINO ROSSI
Per suo figlio, soprannominato Gino, Stanislao aveva voluto un’educazione di livello: collegio degli Scolopi a Firenze e poi il noto liceo Foscarini a Venezia, che però Rossi aveva abbandonato a 14 anni, per dedicarsi alla pittura, sua vera passione. Per completare la sua istruzione aveva preso alcune lezioni private dal pittore russo Vladimir Schereschewsky, e ancora minorenne aveva sposato la pittrice diciottenne Bice Levi Minzi nel 1903, due anni dopo la morte di suo padre. Nel 1905 era riuscito a ottenere un atelier all’ultimo piano di Ca’ Pesaro, prima di partire per un viaggio a Parigi sulle tracce degli artisti che lo interessavano, come i Nabis e Paul Gauguin, del quale aveva avuto occasione di vedere la grande antologica al Salon d’Automne nel 1907. Attratto dall’arte primitiva e dai pittori irregolari, Rossi aveva cominciato a esporre nelle mostre giovanili di Ca’ Pesaro, dove nel 1911 era stato protagonista di una prima personale in cui aveva esposto dieci tele, vicine alle sensibilità cromatiche di Paul Serusier e Henri Matisse.
GLI SPOSTAMENTI DI GINO ROSSI
In questi anni trascorreva molto tempo in Bretagna, terra protagonista di alcuni dei suoi dipinti più intensi come Primavera in Bretagna (1909), mentre quando era in Italia si divideva tra Venezia, dove aveva incontrato lo scultore Arturo Martini, professore all’Accademia di Belle Arti, l’isola di Burano e l’osteria alla Colonna a Treviso, dove si incontrava con altri colleghi, come Arturo Malossi e Ascanio Pavan. Sostenuto dal direttore di Ca’ Pesaro Nino Barbantini, apprezzato da collezionisti come Omero Soppelsa, Gino Fogolari e Giuseppe Fusinato, Rossi sembrava destinato a un sicuro successo, ma la separazione dalla moglie nel 1913 e il successivo trasferimento a Ciano, un paese vicino a Treviso, cominciarono a minare la promettente carriera, anche a causa di un tracollo economico che lo costrinse a vivere con la madre, con la quale aveva un rapporto molto conflittuale. Nel frattempo i successi non mancavano: tra i nuovi collezionisti di Rossi figurava in quegli anni il pittore Felice Casorati, grande estimatore della sua arte. Vicino alle istanze interventiste dei futuristi, Rossi partì per il fronte nel 1916, dove venne fatto prigioniero dagli austriaci l’anno successivo e trasferito nel campo di concentramento di Restatt, in cui venne torturato e soffrì la fame. Ritornato in Italia nel 1918, si trasferisce a vivere con la madre a Noventa Padovana, senza però perdere i contatti con l’ambiente artistico veneziano né smettere di dipingere.
L’EPILOGO DELLA STORIA DI GINO ROSSI
La sua produzione venne rallentata dalle difficoltà economiche, mentre il suo stile si avvicinava alla lezione protocubista di Paul Cézanne. Viveva in abitazioni di fortuna sulle colline padovane e si muoveva in bicicletta, sostenuto economicamente dall’amico pittore Nino Springolo, ma le sue idee sull’arte restavano molto ferme, tanto da spingerlo a rifiutare l’invito di Margherita Sarfatti a partecipare alla prima mostra del Novecento italiano nel 1925. L’anno seguente le sue condizioni di salute si aggravarono a tal punto da rendere necessario il suo ricovero all’ospedale psichiatrico di Mogliano, poi in quello sull’isola di San Clemente a Venezia e infine a Sant’Artemio a Treviso, dove morì nel 1947.
‒ Ludovico Pratesi
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