Un castello in Umbria ospita mostre-performance e residenze d’artista
Si è appena conclusa la terza edizione di “Casting the Castle”, giornata di performance, video e installazioni nel castello di Civitella Ranieri. Ne abbiamo parlato con il curatore Saverio Verini
Nel castello di Civitella Ranieri, in Umbria, è andata in scena la terza edizione di Casting the Castle, giornata dedicata alle arti performative, alla videoarte e alle installazioni interattive-musicali, ideata dal curatore Saverio Verini (Città di Castello, 1985).
Civitella Ranieri è anche il nome della fondazione statunitense che ha scelto come base operativa il borgo di Umbertide, in particolare il Castello Ranieri, risalente al XV secolo: “Una fortezza che ha fornito protezione, sostentamento e rinnovamento a generazioni della famiglia Ranieri e della sua comunità allargata“. Porta avanti un programma di residenze per scrittori, compositori e artisti visivi internazionali. Dal 1995, quando ha aperto su iniziativa della fondatrice Ursula Corning, ha ospitato più di mille borsisti. Abbiamo intervistato Verini per scoprire quali sono le origini e gli obiettivi dell’iniziativa.
INTERVISTA A SAVERIO VERINI
Com’è nato Casting the Castle?
Nel 2018 Dana Prescott e Diego Mencaroni, rispettivamente direttrice e direttore del programma di residenze di Civitella Ranieri Foundation, mi invitarono a pensare a un progetto per gli spazi della fondazione. Il loro desiderio, in vista dei 25 anni di attività della fondazione, era quello di dare vita a una manifestazione artistica con la quale aprire le porte del castello al pubblico. Tuttavia Civitella Ranieri è soprattutto un centro dedicato alle residenze, un luogo dove artisti visivi, scrittori, compositori e ricercatori provenienti da tutto il mondo hanno l’opportunità di trascorrere alcune settimane lontani dal “rumore” e dalla frenesia dei grandi centri, dedicandosi alle loro pratiche. Nessuno di noi voleva violare quest’identità, anche considerando il fatto che Civitella non è un centro espositivo pronto ad accogliere mostre che richiedano allestimenti particolarmente complicati o aperture quotidiane al pubblico.
Quindi cosa accadde?
Partendo da questi aspetti – solo in apparenza limitanti – è nata l’idea di basare la proposta sulla performance, dunque su una temporalità più concentrata. Il titolo fa riferimento al verbo inglese “to cast”, che significa proprio “plasmare”, “modellare”: un’iniziativa, dunque, che desse una forma inedita al castello.
In cosa diverge e in cosa si allinea questa edizione rispetto alle altre?
Questa terza edizione di Casting the Castle è decisamente in continuità con le precedenti: la componente performativa è sempre al centro del progetto, così come l’idea di attivare connessioni inattese con un luogo già di per sé incredibilmente suggestivo come il castello di Civitella Ranieri. Altro elemento chiave è il coinvolgimento di ex “civitelliani”, come Kae Tempest e Sissi, o di borsisti attualmente in residenza come la compositrice egiziana Nadah El Shazly, al cui fianco ho scelto di invitare altri artisti che stimo e che potessero essere in linea con la traccia tematica di quest’edizione. Come differenza principale rispetto al passato, invece, direi senz’altro il maggior numero di autori coinvolti e di opere-performance concepite appositamente per l’occasione.
MOSTRA E RESIDENZA AL CASTELLO DI CIVITELLA RANIERI
Ci spieghi meglio il senso del sottotitolo, They repeat themselves constantly, but do not create a sense of habit, tratto da un testo scritto dall’artista visivo Riccardo Benassi durante la sua residenza?
Il sottotitolo è stata una specie di piccola illuminazione avuta durante un sopralluogo fatto negli scorsi mesi in preparazione di Casting the Castle. Mi colpì, allora, un breve testo stampato, incorniciato e allestito a parete lungo una delle scalinate del castello. Si trattava, appunto, di uno scritto di Riccardo Benassi, dedicato ai suoni che poteva udire dalla finestra del proprio studio nel corso della sua residenza: una polifonia che mi sembrava legarsi perfettamente alle differenti proposte che avevo in mente. E poi mi piaceva questo riferimento al concetto di ripetizione – come evidente nell’estratto scelto come sottotitolo –, che è il motivo ricorrente di quest’edizione.
Perché la ripetizione è una delle cifre di quest’edizione?
In generale sento di essere attratto da temi ricorrenti e “costanti” dell’espressione artistica: questioni ancorate al tempo che viviamo, ma anche inattuali, proprio perché accompagnano e attraversano la produzione culturale di fatto da sempre. Quella della ripetizione è una questione che tocca un nodo centrale del fare arte: riguarda l’esercizio, la pratica, e con essi il tentativo costante di evolvere; un fare incessante che tuttavia porta con sé anche dispersione ed entropia, fino ad assumere contorni perturbanti, ossessivi, tutt’altro che rassicuranti. La ripetizione è connessa pure alla simulazione, alla replica, al tentativo di imitazione che però difficilmente si traduce in copia perfetta.
Come interagiscono gli artisti con il castello e con il contesto nel quale intervengono?
Tutte le opere del percorso presentano caratteristiche in linea con quanto appena detto: penso alla rotazione circolare del corpo di Guido van der Werve nel video The day I didn’t turn with the world; alle evoluzioni sui pattini di Sissi nella performance Circonvolare; alle pagine sfogliate compulsivamente dai partecipanti all’azione Handle with care di Filippo Berta; ai suoni del castello campionati da Nadah El Shazly; al respiro sincronizzato dei cuscini di Paolo Bufalini; al lancio continuo delle parole-paracadute di Giorgia Accorsi e Fabio Giorgi Alberti; al tentativo incessante e fallimentare di effettuare una scalata da parte di Greig Burgoyne; ai versi in loop di Kae Tempest.
Qual era il tuo obiettivo?
Mi intrigava l’idea di un’esposizione di sole due ore, dove tutto fosse in costante movimento, sia le azioni dal vivo che le opere installate nei vari ambienti: una “mostra performativa” in cui la ripetizione di gesti, immagini e voci non producesse una routine o un’abitudine, ma al contrario generasse un’atmosfera onirica e sospesa, a metà tra incantesimo e sortilegio, amplificata dalla cornice già di per sé stupefacente del castello.
Nel tuo percorso curatoriale, cosa rappresenta Casting the Castle?
Sicuramente un momento di grande libertà, data dalla possibilità di sperimentare formati espositivi con i quali non capita spesso di misurarmi, oltretutto in un contesto davvero unico. Rappresenta, inoltre, l’opportunità di sviluppare una proposta artistica in luoghi a me particolarmente cari, visto che sono nato e cresciuto a Città di Castello, a pochi chilometri di distanza da Civitella Ranieri. Per questo sarò sempre grato a Dana Prescott (che a breve terminerà il proprio incarico di direttrice di Civitella Ranieri), Diego Mencaroni e a tutto il fantastico gruppo di lavoro di Civitella (Ilaria Locchi, Greta Caseti, Juliette Neil) per l’invito a curare questo progetto e per il loro supporto costante.
‒ Giorgia Basili
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