In occasione della 17esima Biennale di Istanbul, che si svolgerà in numerose sedi cittadine e che pone una serie di domande sulle sfide sociali più urgenti, abbiamo intervistato il team dei curatori Ute Meta Bauer, Aman Kanwar e David Teh. Ecco in sintesi il loro progetto a lungo termine.
Ultimamente la Turchia si è fatta notare per un ridimensionamento dei diritti delle donne. Voi che situazione avete trovato?
Siamo contenti di lavorare con uno straordinario gruppo di donne, non solo artiste locali, ma anche componenti del team della Biennale, che è composto da tante giovani architette. Le donne rappresentano il 60% dei contributor di quest’anno, e s’interrogano su cosa sia un corpo normativo, in che modo la maternità influisca sulla pratica artistica, eccetera. Ciò che più conta per noi è la diversità delle loro provenienze: artiste, poetesse, accademiche, donne che lavorano nella pesca o nella pastorizia.
Sosteniamo le voci che hanno minor possibilità di essere ascoltate, vogliamo costruire insieme a loro un nuovo modo di ascoltare e vedere.
Qual è la linea curatoriale per il 2022? Come avete selezionato gli artisti?
Non esiste un tema o un titolo unificante per questa edizione. Può essere immaginata come un processo di “compostaggio”; il compost è una risorsa che si genera al proprio ritmo, mescolando gli ingredienti per poi diffonderli e utilizzarli altrove, con conseguenze imprevedibili. Nel 2020 abbiamo cominciato a parlare con singoli artisti e collettivi, a proposito delle loro idee. Tutti i progetti di questa Biennale sono il risultato di ricerche e collaborazioni a lungo termine; le mostre sono una continuazione di quelle conversazioni. I preparativi hanno richiesto più tempo del solito a causa della grande incertezza causata dalla pandemia globale e dal rinvio di un anno. Con questa incertezza in mente, la Biennale è stata deliberatamente lanciata prima della sua data di apertura ufficiale e molti progetti continueranno dopo la sua chiusura.
Avete scelto una vasta gamma di luoghi: tra questi, l’ex scuola superiore greca per ragazze, due antichi hammam e un vecchio edificio degli Anni Trenta che fungeva da atelier di Emin Barin. In che modo questa varietà influisce sul progetto curatoriale?
Raggiungere un pubblico nuovo e stabilire nuove connessioni con la città sono due obiettivi di questa biennale. Abbiamo selezionato le sedi in base alle loro storie e personalità distintive, nonché alle loro posizioni in vari quartieri. Anche per gli abitanti di Istanbul, queste sedi avranno qualcosa di nuovo o unico da offrire. Dove l’arte può trovare un pubblico? Dove può raggiungere le persone che normalmente restano invece lontane? Dove possono essere condivise e discusse idee ed esperienze? Queste sono le considerazioni chiave che hanno guidato la nostra scelta.
LE CARATTERISTICHE DELLA BIENNALE DI ISTANBUL 2022
In un certo modo, si può affermare che anche la città di Istanbul, con la sua storia e le sue storie, è (insieme agli artisti) la protagonista di questa Biennale?
Può una qualsiasi Biennale rappresentare davvero un’intera città delle dimensioni, della complessità e della storia stratificata di Istanbul? È nostra intenzione che i vari quartieri siano riconosciuti sia come ospiti sia come partecipanti di questa edizione. Istanbul ha molti “spazi della memoria”. Abbiamo cercato di combinare questi spazi e di animarli con conversazioni e corpi diversi.
Quest’anno la Biennale è caratterizzata da una forte presenza digitale e audiovisiva, in collaborazione con l’Istanbul Film Festival. Cosa potete dirci a riguardo?
Siamo contenti di aver lanciato il programma cinematografico con l’Istanbul Film Festival ad aprile, per presentare alcune domande centrali della Biennale. Sviluppata nel mezzo di una spirale di crisi sanitaria globale che è ancora lontana dall’essere risolta, questa edizione posticipata ci ha presentato una rara opportunità per riconsiderare lo scopo di una grande piattaforma di arte visiva. Crediamo che il cinema possa beneficiare dello stesso tipo di confronto; in mezzo a crisi ambientali e umanitarie, disfunzioni sociali ed economiche, deve sicuramente fare di più che intrattenere. Con un flusso di notizie accelerato e algoritmico, il crollo dei media indipendenti e del reportage equilibrato e basato sui fatti, forse abbiamo bisogno di un tipo di cinema più editoriale: immagini in movimento che ci tengano informati, che sfidino la saggezza popolare, che ci educhino. Il nostro contributo all’Istanbul Film Festival consiste in due lungometraggi e un programma tematico di opere brevi che sono gli ingredienti chiave del progetto.
La Biennale ospita anche il progetto internazionale in corso Flag Project. Ce ne parlate?
In occasione della Biennale, l’artista e performer, attivista e scrittrice ambientale Arahmaiani porta il suo Flag Project a Istanbul. È un lavoro partecipativo iniziato nel 2006 in collaborazione con l’Amumarta Pesantren (Islamic Boarding School) di Yogyakarta, dopo che un terremoto ha colpito la città indonesiana. Incentrato sulla partecipazione della comunità e sull’impegno democratico, ogni sua parte ruota attorno a parole chiave identificate dalla comunità e domande cucite su bandiere dai colori vivaci, che vengono sventolate dai partecipanti alle sfilate che l’artista prepara con ciascuna comunità. Il progetto è stato sviluppato in Indonesia, Australia, Malesia, Singapore, Tailandia, Filippine, Giappone, Cina, Tibet, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Tra i partecipanti c’è la regista libanese Lamia Joreige. Qual è il significato del suo essere parte di questa Biennale?
L’artista visiva, regista e autrice Lamia Joreige è nota per le sue installazioni multimediali e i suoi film a carattere documentario che affrontano grandi narrazioni storiche e indagano memorie controverse, in particolare la questione dei conflitti libanesi. La sua pratica unisce materiale d’archivio con elementi di fantasia, proponendo nuove mediazioni tra memoria personale e collettiva, dando voce a storie sinora taciute. Il suo Mapping a Transformation è il primo lavoro che nasce da un più ampio progetto di mappatura del Medio Oriente alla fine dell’Impero Ottomano. Per Istanbul, Joreige rilegge un fregio storico, assemblando materiale d’archivio con i propri disegni e testi. Dalle cronache dell’Era Ottomana ai resoconti della carestia e dell’economia alimentare, dall’ascesa del nazionalismo arabo ai destini della Palestina e del Grande Libano, la sua opera svela le speranze e le ansie di un periodo di turbolenze, le cui conseguenze si avvertono ancora oggi.
Cosa vorreste lasciare a Istanbul con questa Biennale?
Desideriamo lasciare Istanbul in un fermento di dialogo e confronto! Dopo questi anni di isolamento, tutti sono desiderosi di trascorrere del tempo insieme, pensare, parlare, leggere, guardare e ascoltare in pubblico. Ci auguriamo che gli abitanti di Istanbul vengano a porre domande e a riflettere criticamente sulle risposte. Ci auguriamo inoltre che questa edizione incoraggi ulteriori sperimentazioni, anche nel format degli eventi artistici internazionali.
‒ Niccolò Lucarelli
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