Studio visit. Intervista all’artista Marco Vitale
Ha riprodotto, alterandola, la Cappella degli Scrovegni e ideato una performance in cui due ragazzi si baciano per un’ora a fronte di un compenso di 6 euro. Lui è Marco Vitale, artista classe 1992 che non ha paura di parlare di precariato e problemi nel mondo dell’arte
Le opere di Marco Vitale (Brindisi, 1992) sono attraversate da un sentimento non pienamente definibile. Languide, provvisorie, talvolta malinconiche: mi sembrano queste le qualità della maggior parte dei suoi interventi. Vitale cerca una riconoscibilità attitudinale, più che formale. Per questo l’artista si esprime attraverso una molteplicità di media, seguendo input concettuali che lo portano ad affrontare diverse questioni: gli inciampi e i malintesi generati dal linguaggio, la rielaborazione di riti e cliché della cultura popolare, la riflessione sulla natura di desideri e pulsioni. Nella produzione di Vitale la componente effimera è una costante. Performance, ambienti instabili e opere destinati a disfarsi – talvolta con un ruolo attivo da parte dell’osservatore – contribuiscono ad alimentare lo stato d’animo inafferrabile di cui parlavo all’inizio. La sensazione è quella di essere di fronte a qualcosa che si consuma di fronte a noi, anche grazie a noi.
“Se fossimo qui a far quel che facciamo avendo la priorità di un rientro economico avremmo già smesso”.
Per definire la tua pratica credo sia fondamentale partire da esempi concreti. Ti va di raccontare il progetto che ritieni più significativo tra quelli da te realizzati?
Provo a rovesciare la questione. Forse il progetto più significativo è stato quello che non ho mai realizzato. This less is lecture, una mostra del tutto compiuta a livello progettuale, con un impianto teorico ferreo, che non ha però trovato realizzazione fisica – per scelta personale – se non attraverso il livello magnetico della scrittura: una conversazione scritta con Giorgiomaria Cornelio, autore di cui subisco il fascino, così come la vicinanza linguistica e mentale. Abbiamo poi deciso di pubblicare questo testo-mostra online, per Kabul Magazine. Fra molte esperienze nell’arco degli ultimi dieci anni, devo ammettere che questa è stata per me un caposaldo. Chiarisce un patto con la ricerca, dove l’assenza dell’opera amplifica la sua lettura. Per chiarire il concetto, ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: “Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro”.
Mi piacerebbe che ora parlassi di un intervento di fronte a un vero e proprio pubblico: The desert we sang so long, per esempio.
È una performance in collaborazione con Marco Musarò, dove due ragazzi sono impegnati a baciarsi per un’ora, dietro il pagamento di 6 euro l’ora, un ipotetico minimo sindacale. Tutt’intorno, dalle finestre del chiostro dov’è eseguito il pezzo, un coro canta e reinventa continuamente il testo di Janitor of Lunacy di Nico. La canzone sembra parlare dei giochi di potere all’interno della coppia, dove l’uno può esercitare un’influenza schiacciante sull’altro. Nel lavoro questo spettro si allarga, riferendosi ad altri e più ampi sistemi di potere e assoggettamento. Il coro è nascosto, invisibile, il canto cade dall’alto, grave, sul corpo dei due performer al piano inferiore. Viene a crearsi un contatto violento fra due elementi estremi e opposti: il lavoro salariato, contro l’archetipo presente invece nel gesto del bacio; il lavoro inteso come attività inferiore per eccellenza (come scriveva Arendt), contro una delle sue manifestazioni più elevate e intime: lo sforzo di una bocca sull’altra, il linguaggio orale ravvicinato fisicamente sino al suo annullamento e alla sua esasperazione.
LE OPERE DI MARCO VITALE
I tuoi lavori nascono da un traboccamento di idee, letture, approfondimenti teorici. Penso a Cries the man in the blue garden, in cui incroci Il rituale del serpente scritto da Aby Warburg e la decorazione della volta della Cappella degli Scrovegni.
Sì, la lettura è spesso fondante. Cries the man… si pone come una riproduzione alterata della Cappella degli Scrovegni, dove la volta stellata è deposta sul piano di calpestio, i lapislazzuli blu sono trasformati in sabbia, materiale tradizionale della pittura Hopi. Un ponte fra Oraibi e Atene, come suggerisce Warburg. Un confronto per strati: visivo, architettonico, antropologico. La persistenza materica nell’arte classica, bianca, occidentale contro la temporaneità dell’approccio amerindio: l’affresco immortale contro il disegno di sabbia entro cui si scagliano i serpenti vivi affinché possano cancellarlo. Gli Scrovegni, il loro acquistare l’ingresso nelle sfere celesti, la purga dai peccati, con la commissione dell’opera; gli Hopi che invece distruggono le pitture come rito di passaggio fra due fasi della vita – l’infante e l’adulto – o due stagioni dell’anno – siccità e pioggia. Il pubblico attraversa l’ambiente calpestando la rappresentazione celeste come fosse una decorazione propria del pavimento. Alla fine non restano che striature di sabbia irregolari e qualche stella a otto punte sopravvissuta qui e là. È un happening, un test.
C’è un’attitudine quasi iconoclasta nella tua pratica, un continuo fare e disfare… Come se cristallizzare le tue visioni in una forma stabile rischiasse di ingabbiarle. Da dove deriva questo sentimento?
Iconoclastia è una parola che mi è cara. Viviamo in un momento iconoclasta, benché possa sembrare il contrario, ovvero iconolatra. La nostra iconolatria è iconoclasta, siamo in conflitto perenne con le immagini, benché le adoriamo, le adoperiamo a nostro linguaggio. Siamo in una fase di mezzo, nel pieno di un’adolescenza della tecnologia quanto dei linguaggi. Sul cristallizzare in immagini o forme, insomma sul lasciar traccia: alcuni monaci procedono nei pellegrinaggi muniti di una scopa di ramoscelli, così che, lungo il sentiero, possano man mano spostare dolcemente gli insetti che potrebbero finire calpestati. Mi piacerebbe errare per il mondo come loro.
Che ripercussioni ha tutto ciò nel tuo “posizionamento” come artista?
Come si posiziona il lavoro di un artista italiano, nato negli Anni Novanta? Se decide di vivere nel Sud Italia senza assecondare l’invito generale a muoversi altrove? E se, per di più, la sua produzione è prevalentemente teorica e transitoria? Se fossimo qui a far quel che facciamo avendo la priorità di un rientro economico avremmo già smesso, come suggeriva Giuseppe Chiari: “L’arte è finita, smettiamo tutti insieme”. Svolgiamo almeno due lavori, con quello dell’arte. Vedo menti e mani brillanti lavorare per quattro soldi come baristi, bidelli, centralinisti. La preziosità della nostra ricerca e della nostra generazione sta pure in questo insistere ottuso o illuminato: continuare, ostinarsi, ricercare senza necessariamente voler trovare dall’altro lato il cachet. E c’è ovviamente una stanchezza collettiva: ha la forma di una perla, è la nostra fortuna.
C’è qualche autore che ha contribuito a delineare questa traiettoria?
Potrei fare il nome di molti artisti che hanno marcato su di me la loro influenza: Klein, Calle, Sehgal. Ma quando si tratta d’immagini non c’è regime o sistema che regga: il mosaico della Cattedrale di Otranto, la Ziqqurat di Monte d’Akkoddi, i pittogrammi della Grotta dei Cervi, il volto sontuoso e immobile della prima persona amata, il canneto che solca la fine della via in cui sono cresciuto e ondeggia nel vento, queste sono le immagini che mi hanno educato sentimentalmente.
‒ Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #67
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