Futuro Antico. Intervista al filosofo Piergiorgio Donatelli
Razionalità e sperimentazione sono gli strumenti individuati dal filosofo Piergiorgio Donatelli per guardare al presente e al futuro. È lui il protagonista del nuovo appuntamento con la rubrica curata da Spazio Taverna
Piergiorgio Donatelli (Bussolengo, 1966) è un filosofo e accademico italiano. È professore ordinario di filosofia morale e dirige il Dipartimento di Filosofia della Sapienza Università di Roma. L’etica, la sua storia e le problematiche contemporanee della filosofia sono al centro dei suoi interessi.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Mi sono lasciato spesso educare dall’arte seguendo il filo delle circostanze, una visita al museo incorniciata in un viaggio ricco di colori personali e sensazioni, quando i pensieri si stagliano nella mente con una loro definizione e intensità. Non mi nascondo che ciò derivi da una buona dose di incultura e improvvisazione. Per cercare ora un esempio mi torna in mente la visita al museo dedicato a Georgia O’Keeffe a Santa Fe, appena prima della pandemia, con l’aria rarefatta dell’altopiano dopo un viaggio trasognato nel deserto. Al negozio del museo comprai Georgia O’Keeffe and Her Houses, un libro di fotografie che adagia i suoi quadri nelle case che ha abitato e negli scorci che le regalavano. Ci sono anche delle fotografie di questa visita sul mio computer e una in particolare con un filosofo di Albuquerque, noi due sulla panchina a Santa Fe, fatta di sorpresa, divertente e molto Chatwin! L’arte per me è in effetti esperienza.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Sono tentato anche qui di percorrere la strada dell’esperienza. Il mio lavoro di studioso rientra, come è evidente, in progetti di lunga durata, in storie di letture cumulative che lasciano materiali che sono continuamente riutilizzati. Penso che il lavoro intellettuale abbia necessariamente questa natura. E però ho sempre cercato di fare in modo che questo lavoro fosse penetrato dall’energia che mi arrivava dall’incontro con i luoghi, i caffè, le passeggiate, gli sguardi e le sensazioni che alcune città elargiscono con generosità, a me forse e non ad altri. Ho scritto Etica (pubblicato nel 2015) a Barcellona. È una storia dell’etica dove sono riuscito a inserire tutta una serie di spie teoriche che mi stavano a cuore. Ho persino comprato un piccolo appartamento in quella città per scriverlo, che ho venduto l’anno dopo che il libro è uscito. Anche gli altri libri che ho scritto hanno storie simili. Con Etica il lavoro intellettuale è stato interamente mescolato con la vita: i viaggi da Roma, le giornate che si concludevano al mattino, il lavoro intenso nei caffè, le letture letterarie che accompagnavano la scrittura, e quella che più ricordo sono le Memorie intime di Simenon che leggevo solo lì, il piccolo quadro che avevo alla destra del tavolo a casa mia, un signore e una signora a un caffè che avevo comprato pensando proprio a Simenon, alcuni brani musicali ascoltati ripetutamente. Quel libro si è impastato di esperienza. In un senso generale questo mi succede sempre però.
Che importanza ha per te il Genius Loci all’interno del tuo lavoro?
Per molti anni nessuno. Sono andato a studiare negli Stati Uniti in diverse occasioni, ero molto legato alla cultura e alla filosofia di quella nazione. Poi gradualmente mi sono scoperto europeo e italiano (!). E ora anche un po’ veneto, anche se è un Veneto trasfigurato dall’immaginazione; leggendo molto Comisso qualche anno fa mi era parso di capirlo. Però non c’è dubbio che ho continuamente bisogno di spostarmi da qualche altra parte, di esiliarmi, e d’altronde le grandi menti europee del Novecento che prendo come guide hanno vissuto in esilio, Wittgenstein innanzitutto, dalla sua nazione che dopo la grande guerra non c’era più e dallo stesso linguaggio, e forse anche dalla sua vita.
PASSATO E FUTURO SECONDO PIERGIORGIO DONATELLI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Il peso del passato può ingabbiare il senso delle possibilità che abbiamo di fronte. Il rifiuto delle tradizioni e delle consuetudini trasmesse ai giovani dagli adulti è un passaggio fondamentale nella maturazione degli individui e delle società. Il richiamo alle tradizioni è uno dei modi in cui si è cercato di imbrigliare il campo inventivo degli esseri umani (un altro, molto frequentato, è l’appello alla natura, a ciò che essa avrebbe necessariamente in serbo per noi). Tra adulti e giovani si crea però un rapporto dialettico. Il giovane rifiuta di considerare naturali certi modi di pensare e di vivere e così offre un’occasione di istruzione all’adulto. Parla a nome di una società che trova desiderabile, non ancora presente o solo in modo limitato; si arroga il diritto di annunciare un futuro che rende conto di insoddisfazioni e ingiustizie che avevano infestato il passato.
Una recente epoca di contestazioni che hanno cambiato le nostre società è stata naturalmente quella che va dagli Anni Sessanta ai Settanta. Un’epoca precedente subito inghiottita dalla mostruosità delle dittature erano gli anni tra le due guerre. Ho letto questa estate un bel libro che torna su questi temi, lo ha scritto Olivia Laing, Everybody (anche tradotto in italiano). La ribellione e la sperimentazione di individui e gruppi hanno aperto spazi di esperienza e di vita associata del tutto nuovi nella dimensione della sessualità, delle relazioni intime e familiari e nella malattia. Ci sono state rotture radicali che hanno avuto la forza di fare maturare la società e hanno imposto modi migliori di pensare a questi temi. Perciò, il rifiuto delle tradizioni si prende la responsabilità di parlare a nome di coloro che hanno abitato nel passato, delle loro aspirazioni e della loro muta disperazione.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Ne darei due. Il primo è la determinazione nel progettare la propria vita, ed è fondamentale. Il secondo è di non lasciare che la determinazione schiacci la capacità di sperimentare, che in fondo vuol dire lasciare che la vita ci insegni attraverso l’esperienza. Le nostre società e l’università in particolare insegnano ora ai giovani a diventare manager di se stessi, a trattarsi come un prezioso capitale umano. La vita però è anche avventura e incontro inaspettato con idee, luoghi e persone, e con se stessi.
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Il problema della post verità si pone in società dove domina l’abbondanza e la confusione delle informazioni e delle voci e in cui si sono smarrite le distinzioni fondamentali tra verità e fole, argomentazione e sofismo, serietà e facezia. D’altra parte il sacro è un concetto che le religioni confessionali hanno imprigionato in strutture di potere e di credenze e che ora è lasciato libero di espandersi nelle società democratiche. Lo troviamo nel desiderio di ristabilire un rapporto con la natura, nella scelta di stili di vita personali nel mangiare e nella cura del corpo, nel modo in cui cerchiamo di fare della malattia e della prospettiva della morte scelte esistenziali profonde, e in tanti altri aspetti a cui diamo il nome di spiritualità. L’abbondanza di paccottiglia spiritualista e di manuali di self help, di ritiri e meditazioni (e si veda Yoga di Carrère e alcune serie televisive come Nine Perfect Strangers) è forse un aspetto di società che hanno smarrito il senso e il valore della verità, e tuttavia vi scorgo anche una ricerca di significato e di densità nei gesti quotidiani in cui possiamo registrare l’evoluzione dell’antico senso del sacro.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Non so fare previsioni. A dominare è però un grande desiderio di oltrepassare l’umanità, per migliorarla ma anche per liberarsene. L’intelligenza artificiale è il grande motore di questi cambiamenti e di questo atteggiamento che in parte è superstizioso e in parte è motivato dall’aspettativa di progressi importanti, ad esempio nella medicina, nella produzione e nella ricerca. Con ben pochi strumenti tecnologici a disposizione ma con una scienza naturale che galoppava, tra Otto e Novecento abbiamo assistito a qualcosa di simile, una fede nel progresso scientifico e tecnologico che tracimava in un’aspettativa di palingenesi totale. Pensiamo a un personaggio come H.G. Wells, di cui si legga il gustoso ritratto che ne fa David Lodge (Un uomo di fascino), ma anche a Courtial des Pereires, uno dei protagonisti di Morte a credito di Céline. Il progetto di migliorare l’umanità è quello della prima modernità, che ci ha liberati da superstizioni e irrazionalità e dall’oppressione di strutture di potere bloccate, statuali, religiose e sociali. Ma ora se ne avverte una dimensione nuova, che si alimenta di una strana fascinazione per una post umanità a cui occhi quella presente apparirà come una fase molto rozza dello sviluppo della specie (ma questo succederà in ogni caso, a meno di non scomparire come i dinosauri). In fondo, si tratta di una sfiducia nella capacità che possiede l’umanità di trarsi fuori dagli impicci, e quindi non è un buon segno. Può rafforzare tutte quelle forze, dentro le democrazie e nelle nazioni non democratiche come la Cina, che non assegnano alcuna fiducia alle capacità cooperative democratiche degli esseri umani e puntano sullo sviluppo tecnologico senza democrazia, tagliando fuori la tradizione liberale che mette al centro i singoli individui con la loro stranezza ed eccentricità, come scriveva John Stuart Mill a metà Ottocento.
Questa fascinazione superstiziosa è una prima idea, per niente rassicurante. Altre due idee che potrebbero contribuire a porvi rimedio sono la razionalità, che sta espandendo il suo campo di azione in modo impressionante, e l’altra è l’esperienza individuale che mai come oggi ha raggiunto moltissime persone e si è inoltrata in campi inediti.
Marco Bassan
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