I dimenticati dell’arte. Antonia Pozzi, la Silvia Plath italiana
La vita brevissima di Antonia Pozzi non le impedì di scrivere alcune poesie degne di essere lette ancora oggi. Tormentata e appassionata, la poetessa si formò nel denso clima culturale della Milano del primo Novecento
“Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”. Così scriveva la poetessa Antonia Pozzi (Milano, 1912-1938), che potremmo definire la Silvia Plath italiana, capace di comporre versi di grande intensità nel corso della sua breve e tormentata esistenza, utilizzando parole semplici ma precise, che Eugenio Montale definì “asciutte e dure come sassi”.
CHI ERA ANTONIA POZZI
Figlia dell’avvocato milanese Roberto Pozzi e della contessa Livia Cavagna Sangiuliani, Antonia scrive i primi versi da adolescente, mentre frequenta le aule del Liceo Manzoni a Milano, dove comincia una relazione amorosa col suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, interrotta bruscamente nel 1933 a causa della forte opposizione dei genitori.
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università di Milano, dove frequenta il corso di filologia moderna, insieme ad amici come Vittorio Sereni, Luciano Anceschi, Dino Formaggio ed Enzo Paci: si laurea nel 1935 con il professor Antonio Banfi con una tesi su Gustave Flaubert. Donna colta e piena di interessi e passioni, coltiva la fotografia a livello amatoriale, studia le lingue, viaggia in diversi Paesi europei e ama le lunghe passeggiate in bicicletta intorno alla villa di famiglia a Pasturo, in provincia di Lecco, luogo che ama più di ogni altro.
LA POESIA SECONDO ANTONIA POZZI
Antonia scrive poesie vicine all’ermetismo di Sergio Corazzini, con versi densi di simbolismo di carattere crepuscolare: “Petali viola mi raccoglievi in grembo a sera: quando batté il cancello e fu oscura la via del ritorno”. Pur di carattere schivo e riservato, lascia impressioni profonde a chi la incontra. È il caso di Maria Corti, che la conosce negli anni universitari, e così la descrive: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili”.
I TORMENTI ESISTENZIALI DI ANTONIA POZZI
Prigioniera di un ambiente altoborghese che non comprendeva la sua sensibilità, Antonia coltiva sofferenze intime che si associano presto al turbolento clima politico dell’epoca. Dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, che colpiscono direttamente alcuni suoi amici cari, Antonia scrive a Sereni: “Forse l’età delle parole è finita per sempre”. Dal 1937 insegna presso l’istituto tecnico Schiaparelli, mentre si impegna nell’aiuto ai poveri e comincia la stesura di un romanzo dedicato alla storia della Lombardia. Purtroppo però queste attività, accompagnate dalle passioni per la poesia, la fotografia e le passeggiate in montagna, non riescono a distogliere Antonia dal suo dramma esistenziale, che si interrompe con il suicidio il 3 dicembre 1938, a soli ventisei anni, presso l’abbazia di Chiaravalle. La memoria della poetessa viene custodita nell’archivio Pozzi a Pasturo.
Ludovico Pratesi
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