Corpo, pornografia, desiderio. Parla l’artista Beatrice Favaretto
In uno dei suoi ultimi lavori Beatrice Favaretto è andata sul set di un film porno d’autore berlinese. L’obiettivo? Indagare le sfumature meno scontate del desiderio e restituire al corpo l’idea di fisicità
Finalista della prima edizione di Biennale College, Beatrice Favaretto (Venezia,1992) ha appena concluso la residenza alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Tra il progetto The Pornographer e il più recente, Miss Italia, approfondiamo la sua poetica del corpo come desiderio in itinere, la sua rappresentazione e il suo potenziale politico.
Quale approccio hai ai tuoi soggetti e qual è il processo di trasformazione che “subiscono”?
Il mio è un processo naturale che rispecchia l’idea di corpo come forma indefinita, che si sfalda di continuo nel suono, nel colore e negli odori, un invito o un’apparizione che si modifica e sviluppa nella percezione dello spettatore. Che può essere compresa o meno a seconda di come la si guarda e del momento della vita in cui la si sta guardando. L’approccio che ho con questi corpi è di natura istintiva, li manipolo con l’intento di fluidificare la nostra interazione, sino a che non esiste più un soggetto che riprende e l’oggetto ripreso, ma uno scambio reciproco che annulla ogni confine. C’è sempre un forte desiderio di analizzarli nella maniera più profonda e invasiva possibile, ed è naturale che una parte di me venga coinvolta nella rappresentazione. Come in The Pornographer, ciò che esploro è sia la seduzione verso un corpo ma anche la paura che lo nega, sentimenti contrastanti che confluiscono in un’enorme sensazione di smarrimento. L’irriconoscibilità delle immagini svela appunto la capacità dello sguardo di adattarsi, di cercare o di rifiutare a seconda di come guarda e quando.
Per The Pornographer hai deciso di esplorare il set di un film porno d’autore berlinese. Il risultato finale è un’unica gigantesca e mostruosa macchina del desiderio, una serie di riprese ravvicinate che non lasciano spazio al riconoscimento di nulla se non del desiderio-in-atto nel suo fervore. Ci racconti questa esperienza?
È stato uno dei miei lavori più difficili. Ho sempre lavorato in intimità con l’altro, ma tutto sempre relazionato a me, nella mia comfort zone dei miei circoli personali. Questa esperienza è stata un totale shock, tra persone sconosciute in un contesto del tutto alieno, partendo da zero e imparando, con il tempo, ad accettare reciprocamente la nostra presenza; è stato un processo lungo, ma per la prima volta sono entrata realmente in ciò che stavo cercando. Mi sono sempre chiesta come venisse creato il desiderio, e quale fosse la sua struttura. Prima di allora ho sempre lavorato sulla rappresentazione del porno mainstream, ma notavo una perenne assenza emotiva, che invece ho ritrovato sul set a Berlino. Lì ho trovato quell’umanità che si cela dietro la rappresentazione visiva del sesso, le sfumature umane dietro alla creazione del desiderio.
Cosa ti hanno lasciato i protagonisti di questo lavoro?
Quei corpi erano così liberi, acquisivano potenza rendendosi vulnerabili. Non solo sono abituati alla videocamera, ma è attraverso di essa ‒ e in quel caso attraverso di me ‒ che compiono un processo di autodeterminazione e conoscenza, come una terapia. Loro volevano mostrarsi e fare quest’esperienza per superare i pregiudizi della società, andare oltre l’essere stati etichettati come non desiderabili dalla cultura, svelando le fragilità di questo pensiero, imponendosi in un atto esplicito ed estremo, attraverso l’affermazione dell’esperienza, della libertà di vivere e mostrarsi come corpi liberi e desiderabili, come a dire “se sono pronto a vederlo io siete pronti anche voi, perché è stupendo ed è qui”. Per me era la prima volta che assistevo a una potenza tale, sia psichica che fisica. I loro sono corpi la cui sessualità si porta dietro dinamiche politiche e sociali, come nel movimento post porno degli Anni Ottanta.
PORNOGRAFIA E DESIDERIO SECONDO FAVARETTO
La cultura bdsm e la pornografia autoriale utilizzano il linguaggio della violenza maschile/ patriarcale, ma nell’atto in sé di appropriazione affermano la libertà di giocare con il corpo, i ruoli, le identità e il diritto di autodeterminare il proprio corpo. Come credi che possa evolversi il suo utilizzo, o contaminazione, nella tua arte?
L’esperienza mi ha aiutato a comprendere che le mie idee di corpo e sessualità erano molto limitate: è stato paradossale vedere come, nonostante fossero loro i miei “soggetti” messi in una condizione di fragilità, quella a essere davvero terrorizzata ero io. Ma, allo stesso tempo, questa paura è stata liberatoria, mi ha portato a lavorare a partire dal desiderio che avevo provato nei loro confronti, a riflettere su come la mia attrazione per loro andasse al di là del corpo e fosse trainata dalla loro potenza, e dunque quanto anche la paura possa essere una forma di seduzione, una spinta a indagare. Nel prossimo futuro spero di riuscire a portare avanti un progetto sul panorama fetish dei locali londinesi, vedremo come andrà.
Aver collaborato con Emy Fem, regista del film, sex worker e attivista per i diritti trans, è stato d’aiuto nella tua ricerca?
Emy Fem, oltre a essere regista e attivista politica, tiene spesso dei workshop sulla sessualità, educa il suo pubblico su come questa sia una sfumatura infinita di azioni ed esperienze, piacevoli o meno, che giocano sulla nostra educazione e sul nostro background. Mi ha fatto molto riflettere il modo in cui Emy veda la sessualità, un atto ludico che presuppone anche la possibilità di ferirsi, esattamente come un gioco. Mi ha ricordato il protagonista del film da cui ho tratto il titolo per il mio lavoro, Le Pornographe di Bertrand Bonello, un film erotico che racconta il declino della pornografia negli Anni Settanta, un periodo in cui c’era ancora una certa cura nel girare un film porno, dalla scelta delle ambientazioni al benessere degli attori all’attenzione per le dinamiche relazionali tra di loro, e di come questa sia stata cancellata dall’avvento del business della pornografia, che l’ha trasformata in un prodotto di consumo capitalistico estremo, una macchina di produzione d’immagini che puntano solo a eccitare il più velocemente possibile.
In che modo questa nuova visione ha influenzato il tuo ultimo lavoro, Miss Italia?
Quest’esperienza mi ha spinto a concentrarmi e lavorare su una sola persona. Nel mio ultimo lavoro presentato alla Manifattura Tabacchi, Miss Italia, mi sono interamente dedicata a Ludovica, fotografa e modella queer: per sei mesi ho intrattenuto uno scambio reciproco e continuo su come rappresentare il suo unico e personale universo erotico. Come fare un film porno, però è un ritratto. Abbiamo lavorato solo tramite webcam, ci siamo date dei compiti, delle esercitazioni, intraprendendo un percorso alla scoperta del desiderio tra noi e l’altro, tra la creazione del proprio immaginario sessuale e l’esplorazione del proprio corpo. Il percorso che abbiamo scelto è un adattamento del manifesto post porno di Annie Sprinkle fatto su misura per Ludovica.
FAVARETTO TRA EROS E ARTE
Nel finale di The Pornographer hai aggiunto un’affermazione che io trovo di estrema ispirazione: “Dedicato a una nuova forma di rappresentazione”. Trovo sia di vitale importanza per la direzione che l’arte dovrebbe prendere, soprattutto in un Paese che abbraccia sempre più la sua anima conservatrice. Ci spieghi questa tua affermazione?
Trovo che la pornografia nei secoli sia sempre stata rappresentata o in maniera estremamente esplicita o estremamente concettuale, perdendo o il dato umano o quello puramente fisico. Cerco un metodo per rappresentare la sessualità senza filtri, cosa non facile considerando che quasi nessuno è a proprio agio a parlare di sessualità, figuriamoci con una camera davanti. C’è sempre il rischio di indossare una maschera, di mettere in atto delle dinamiche di protezione, per questo cerco il giusto “intermediario” che permetta al soggetto di mostrarsi o parlare liberamente.
Hai già trovato altre forme di rappresentazione o un nuovo intermediario che desideri sperimentare nei prossimi progetti?
Al momento sto lavorando su una serie di dialoghi erotici, basandomi sul programma Ars Amanda degli Anni Ottanta condotto da Amanda Lear, in cui invitava persone a stendersi a letto con lei, e sotto le coperte a parlare di tutti gli aspetti intimi della sessualità, dalla tristezza al piacere, un programma assurdo se si pensa alla televisione di oggi. A partire da questo, sto sviluppando un progetto in cui invito persone a discutere con me di sessualità. Trovo che la parte dialogica faccia emergere ciò che cerco nella nuova rappresentazione della sessualità nell’arte.
Paul Preciado definisce il “pornopotere” un dispositivo di controllo in cui perfino il sesso, la pornografia e l’apparente libertà di genere sono inseriti in una dinamica di frustrazione attraverso cui controllarci. Quindi parlare di liberazione sessuale o guerra dei sessi è ormai obsoleto, bisogna parlare piuttosto di dominazione, resistenza e terrorismo pornografico. Terrorismo pornografico è esattamente come descriverei il tuo lavoro. Definiresti il tuo linguaggio una forma di resistenza?
Totalmente, credo che il mio linguaggio sia un mostrare incessantemente come la sessualità sia una forma di comunione, di conoscenza e socialità, di abbattimento delle barriere costruitesi nel tempo, sia personali che politiche legate al genere e all’orientamento. Uno strumento di unione etica, collettiva e sociale, un’idea perfetta per iniziare un confronto paritario, orizzontale, in grado di creare una connessione molto profonda, sincera e libera. È questo che è il post porno alla fine, un’idea di condivisione totale che si espande a tutti i livelli dell’esperienza. Sarebbe bello se succedesse, e secondo me alla fine succederà.
Rosaria Murolo
Articolo elaborato nell’ambito del corso di Critical Writing, primo anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2021/2022
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