Intervista a Luigi Serafini, autore di un’enciclopedia indecifrabile
È frutto della sua inventiva, ma anche della sua biografia, il Codex Seraphinianus realizzato da Luigi Serafini. Artista, autore, designer, architetto e anche amico di Fellini. Ci siamo fatti raccontare tutta la storia
Considerato il libro più strano e misterioso mai pubblicato, il Codex Seraphinianus, la cui prima edizione fu lanciata in due tomi nel 1981, è oggi un oggetto da collezione richiesto in tutto il mondo. Nella sua casa/studio in pieno centro a Roma, abbiamo incontrato l’artista e autore Luigi Serafini (Roma, 1949) per farci raccontare la genesi dell’enciclopedia e la successiva pubblicazione del libro Pulcinellopaedia Seraphiniana, entrambi ripubblicati nel 2016 in edizioni speciali con tavole inedite, anche a tiratura limitata.
“Il Codex racconta la mia storia e i miei luoghi. Sono nato nella Roma barocca e già da piccolo raccoglievo i miei disegni in un quaderno, una sorta di mini-Codex. Abitavamo vicino Piazza di Spagna, poi ci trasferimmo in una zona residenziale, ma appena maggiorenne tornai nel centro storico e per caso trovai una soffitta proprio dove ero cresciuto, a via Sant’Andrea delle Fratte n. 30. Non molto lontano abitava anche Giorgio de Chirico e Gian Lorenzo Bernini aveva vissuto e creato capolavori come i due angeli di marmo nella basilica di Sant’Andrea delle Fratte”, racconta Serafini, mentre siamo seduti davanti a un curioso camino rigorosamente finto, in cui giace un cervo, tra gli animali che più animano la casa tra fotografie, sculture, disegni e installazioni.
E continua: “All’epoca il centro storico era ricco di pizzerie e trattorie a buon mercato, che spesso avevano sulle pareti dei fantasiosi paesaggi dai colori accesi, opera di un misterioso prof. Stampete, come si firmava. In sintesi, è questo il paesaggio che circondava la mia soffitta dove realizzai il Codex, un’opera per cui scelsi una scrittura asemica, ispirato da un viaggio che feci negli Stati Uniti nell’estate del 1971, quando ero studente di architettura. Tornato a Roma da New York, cominciai questo ambizioso progetto nel settembre del 1976”.
Tim Burton, Italo Calvino, Umberto Eco e Roland Barthes rientrano fra gli estimatori della sua produzione: Serafini è una persona molto intuitiva, attenta ai dettagli e alle coincidenze; è un fiume in piena tra aneddoti e ricordi che hanno segnato la sua vita e il percorso artistico con progetti realizzati anche per il teatro, la televisione e il cinema. Racconta infatti che per timidezza non accettò di interpretare il ruolo da protagonista ne La voce della Luna (1990), l’ultimo film di Federico Fellini, di cui era molto amico, così realizzò la locandina che conserva una storia molto interessante. Ma andiamo con ordine.
INTERVISTA A LUIGI SERAFINI
In merito alla scrittura asemica del Codex Seraphinianus e ai disegni illustrati che definiscono nuove specie, qualcuno ha ipotizzato ci siano aspetti esoterici.
Come per le immagini, quando scrivo seguo il mio sentire del momento. La scrittura del Codex è appunto asemica, cioè priva di significato e formalmente si è evoluta nel tempo, come si può notare sfogliando con attenzione le pagine. A me risulta asemica, e non ho certo nascosto messaggi esoterici, ma in futuro magari si scoprirà che c’era un’astronave aliena orbitante intorno alla Terra a metà degli Anni Settanta, che trasmetteva psicomessaggi ad altissima frequenza e che quindi io non avrei che trascritto inconsciamente immagini e alfabeto di una lontana civiltà extragalattica, chissà!
Nel Codex le lettere della scrittura sono nate istintivamente, liberandosi dalla gabbia della mia alfabetizzazione a base di caratteri latini. Dico sempre che dentro ogni calligrafia se ne nasconde un’altra, quella dell’anima, di cui si notano le tracce in quelle diversità tra persona e persona che danno tanto lavoro ai grafologi.
Invece cosa ti ha spinto a dedicare un libro alla maschera napoletana di Pulcinella?
Quando nel 1981 presentai il Codex Seraphinianus a Venezia, non c’era ancora il Carnevale che conosciamo oggi, quello cioè della città. Quando Napoleone entrò a Venezia nel 1797, uno dei suoi primi atti fu l’abolizione del grande Carnevale, che durava un mese e che comportava enormi rischi per le truppe di occupazione. Anche gli austriaci successivamente mantennero lo stesso divieto. Nel 1982, invece, sulla base del Carnevale di Piedigrotta a Napoli, il Carnevale veneziano rinacque nella sua pienezza dopo due precedenti fasi sperimentali.
E fu grazie a Maurizio Scaparro, presidente della Biennale Teatro, che ebbe l’idea geniale di innestare un Carnevale ancora vivo, come quello di Piedigrotta, in uno morto e farlo così resuscitare. Tra gli altri arrivarono da Napoli Roberto De Simone, Luca De Filippo – il figlio di Eduardo – e la sua compagnia, Mario Martone, insieme a un vagone pieno di Pulcinelli che si dispersero nelle calli. Fu un evento davvero prodigioso!
Pulcinellopaedia Seraphiniana nasce quindi da un incontro di coincidenze?
Scaparro mi commissionò una maschera di Pulcinella di grandi dimensioni, che riuscii a realizzare ai Magazzini del Sale, oggi Punta della Dogana, ovvero museo della collezione di François Pinault. Arrivò il Giovedì Grasso e la maschera fu portata in gondola, avanti e indietro, sul Canal Grande. Fu quella un’occasione per entrare in contatto con Pulcinella, e quindi con l’inconscio collettivo di noi italiani. Ricordo che mi fu di grande aiuto il libro di Anton Giulio Bragaglia sull’argomento. Qualche mese dopo, raccolti bozzetti, appunti veneziani e nuovi disegni, proposi l’idea di un libro a Franco Maria Ricci, che però non lo capì.
E così la Pulcinellopaedia (piccola) uscì con Longanesi nel 1984, immaginata nella forma di una suite, con nove scene al posto dei tempi, omaggio evidente al Pulcinella di Stravinskij. Nel 2016 fu ripubblicata da Rizzoli come Pulcinellopaedia Seraphiniana con nuove tavole. E fu giusto in tempo, perché poi la casa editrice passò sotto Mondadori, che ne avrebbe bloccato l’uscita, come fece con Storie Naturali, un mio altro libro, pronto per la ristampa. I soliti tagli aziendali fatti da manager, o meglio da contabili, privi di cultura e sensibilità.
PULCINELLA E NAPOLI VISTI DA SERAFINI
Sfogliando l’edizione del 2016, mi ha colpito molto la tavola inedita in cui Pulcinella è in compagnia di alcuni supereroi.
Mi piace immaginare i supereroi della Marvel come la continuazione delle maschere della Commedia dell’Arte, dove Pantalone, Arlecchino, Capitan Fracassa hanno tutti una loro specifica caratteristica, come appunto i supereroi. La tavola aggiunta all’ultima edizione, con Batman e Pulcinella, fu realizzata nel 2016 per la seconda edizione e alcuni vi hanno voluto vedere delle premonizioni rispetto a quello che sarebbe successo quattro anni dopo.
Infatti, sotto una luna piena c’è Batman, con riferimento al pipistrello che starebbe alle origini del Covid-19 a Wuhan, che passa la maschera a Pulcinella come metafora del contagio. E c’è la livella, allusione cioè alla morte dove scompaiono le differenze sociali, come recitava Totò. Poi ci sarebbe il Coronavirus sotto forma di pomodoro, sostenuto da un piccolo Superman, a testimoniarne la forza, e una transenna di divieto a ricordare il lockdown. E infine le macchine anatomiche del Principe di Sansevero e ovviamente il cornetto della fortuna.
A proposito di coincidenze, un giorno mi è arrivato dall’America un pacco anonimo, contenente un libro edito dal British Museum dove sono raccolte tutte le tavole disperse di Giandomenico Tiepolo, un album di 104 gouache intitolato Divertimento per li regazzi, che tratta della nascita, vita, morte e resurrezione di Pulcinella. Era l’antenato della mia Pulcinellopaedia, ma non ne sapevo assolutamente nulla!
In qualche modo, nelle tue parole c’è sempre un ritorno a Napoli.
Grazie alla Pulcinellopaedia ebbi l’occasione di frequentare Napoli, perché in quegli anni Barilla comprò la Voiello e Pietro Barilla era amico di Mario Spagnol, proprietario della Longanesi. E così fu un’occasione per realizzare alcune opere per la promozione della Voiello. E quella è stata la prima e ultima volta che ho partecipato a una pubblicità, anche perché di fronte a un simbolo come la pasta non potevo certo dire di no. Nel 2003 poi partecipai alla grande avventura della Metropolitana, grazie ad Alessandro Mendini e Achille Bonito Oliva.
La stazione del mio intervento fu Materdei e a via Leone Marsicano, adiacente all’uscita, realizzai il Paradiso Pedestre, ovvero una serie di grandi ellissi a fondo giallo-Napoli con creature fantastiche policrome in bassorilievo su cui si poteva anche camminare. In fondo alla strada una scultura in bronzo, Carpe diem, “gioca ironicamente con le parole latine del titolo, ‘Carpe diem’ (Afferra l’occasione), e ha l’immediatezza espressiva di una battuta di spirito”, come recita il sito dell’ANM.
Che ricordi hai di quella esperienza?
Mi ricordo che il giorno dopo l’inaugurazione ritornai a via Leone Marsicano per fotografare in santa pace, prima di ripartire per Roma. A un certo punto sentii qualcuno che mi chiamava da un balcone. Qualcuno che forse mi aveva visto il giorno prima. Così dopo poco mi raggiunse un signore e mi invitò a casa sua per un caffè. Guardai l’orologio e, nonostante avessi poco tempo per il treno, accettai l’invito con piacere. Dopo poco mi ritrovai in una sala da pranzo con altri abitanti del palazzo curiosi di conoscermi. E alla fine pranzai lì, perdendo ovviamente il treno. Fu un’esperienza indimenticabile!
L’AMICIZIA TRA SERAFINI E FELLINI
Hai collaborato con Federico Fellini per il film La voce della Luna, eravate anche molto amici. Che persona era?
Fellini era Fellini, e questo basta per descriverlo. Non aggiungerei altro. Nel periodo che precedette La voce della Luna, Federico e io facevamo spesso delle passeggiate nel primo pomeriggio partendo dal Caffè Canova a Piazza del Popolo fino al suo studio in viale Regina Margherita. Spesso parlavamo della locandina del film in divenire e un giorno gli proposi una breve deviazione e arrivammo così a via Tevere 16, dove c’è la targa dedicata all’astronauta Michael Collins, quello che partecipò alla mitica missione Apollo 11 che portò il primo uomo sulla Luna.
Collins nacque a Roma, proprio lì, dove il padre lavorava all’Ambasciata americana, poco lontana. Subito dopo la storica impresa, i tre astronauti fecero il giro delle capitali occidentali e Collins tornò a visitare il suo luogo natale. La cosa curiosa, e che piacque particolarmente a Fellini, fu che quell’appartamento venne comprato nel dopoguerra da una mia zia, ed era all’epoca abitato ancora da miei cugini. Quando Collins arrivò lì, c’ero anch’io e fu molto divertente vedere un astronauta seduto sul divano del salotto con a fianco i due miei zii.
Questo episodio ha quindi ispirato la locandina La voce della Luna, il film con Roberto Benigni e Paolo Villaggio?
Federico era di Rimini, sulla costa adriatica, e penso che la mia locandina in qualche modo abbia evocato dei ricordi infantili. Da bambino, d’estate, anche io frequentavo l’Adriatico, a Pedaso, 160 chilometri a sud di Rimini. Ricordo che quando la Luna sorgeva all’orizzonte si vedevano le luci dei pescherecci che all’improvviso sparivano nel disco luminoso. E potevi immaginare di poterla toccare. E se la potevi toccare, è ovvio che la potevi anche pescare!
I poeti hanno sempre interrogato la Luna, forse perché illumina la notte, chissà. Certo che la notte ha ispirato quello straordinario finale di Otto e 1/2, in cui le persone che hanno fatto parte della vita del protagonista Marcello si ritrovano in fila indiana sulla passerella d’addio e pian piano scompaiono nel buio accompagnate dalla musica struggente di Nino Rota. Non nel nulla, ma nel buio. Quindi il finale rappresenta proprio l’impossibilità di arrivare alla comprensione di quel mistero di cui si parlava all’inizio.
Sei architetto, designer, artista, autore. L’arte che forma ha?
Per me l’arte è un fatto relazionale. Sono relazioni con persone e con luoghi. Ma oggi si tende a vedere l’arte come prodotto. Una noia, perché non c’è dietro nessuna storia. Invece la relazione è tutto e se c’è una cosa che non mi interessa è l’ego. Mi considero più un osservatore.
Quando completai il Codex Seraphinianus, non volevo nemmeno mettere il mio nome, volevo fosse anonimo e senza prefazione. Nella prima edizione il nome non compare sulla copertina, solo nel colophon, in latino e con la mia firma su un cartellino con la numerazione. Questo fu il compromesso raggiunto con F. M. Ricci. Il mio famoso viaggio americano altro non è che un’infinita catena di relazioni, fino a trasformarsi in un viaggio di iniziazione, una soglia oltre la quale tutto non è come prima.
Fabio Pariante
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