Morto Mike Davis, il cyberpunk dell’urbanistica
Scomparso il 25 ottobre, Mike Davis fece confluire nei suoi scritti marxismo, attivismo e uno sguardo lucidamente apocalittico sulle metropoli. A ricordarlo in prima persona è Marcello Faletra, che lo conobbe
La morte di Mike Davis (Fontana, 1946 – San Diego, 2022) lascia un vuoto incolmabile nell’ambito della teoria e sociologia urbana, dell’attivismo ecologico americano e dall’analisi marxista delle contraddizioni sociali.
I suoi studi sulle metropoli hanno fatto scuola. Ha insegnato teoria urbana presso il Southern California Institute of Architecture. Uno dei suoi primi libri ha un titolo programmatico: Prisoners of the American Dream (Prigionieri del sogno americano), nel quale i miti uniformanti della società americana basati sul consumo illimitato sono smontati facendoli impattare con le contraddizioni economiche che li governano. Seguiranno altri importanti studi. Diverse le traduzioni in italiano, tra queste: Città di quarzo (manifesto libri), Geografie della paura, Olocausti tardo-vittoriani, Città morte, tradotti da Feltrinelli, ma anche Breve storia dell’autobomba (Einaudi), nel quale le guerre sono affrontate dal punto di vista della guerriglia di cui l’auto-bomba costituisce, per il suo basso costo, l’arma più utilizzata nei Paesi medio-orientali, e dove essa, secondo l’espressione di Regis Debray ripresa da Davis, è “un manifesto scritto col sangue degli altri”. Un’arma, però, occorre ricordarlo, che non è stata estranea in Italia, dove essa già dagli Anni Sessanta del secolo scorso è stata adottata dalla mafia, e impiegata fino alla feroce stagione delle stragi degli Anni Novanta contro Falcone e Borsellino.
AMBIENTE, ECONOMIA E CITTÀ SECONDO MARK DAVIS
Gran parte del lavoro di Davis era incentrato sulle intersezioni tra storia ambientale ed economica. In tal senso si era orientato verso un marxismo eretico, non ortodosso, che vedeva in Rosa Luxemburg, Ernst Bloch e Walter Benjamin, ma anche l’ultimo Trotsky, i punti chiave per una lettura in grado di rigenerare l’analisi marxiana di fronte ai disastri della globalizzazione. Si potrebbe riassumere tutta la ricerca di Mike Davis nel rapporto tra città e oppressione, metropoli e violenza, ma anche metropoli e apocalisse, come accade nel film Independence day, dove l’estremismo patriottistico diventa l’ultimo rifugio dall’invasione degli alieni. Cosi commentava Davis la proliferazione di film apocalittici che devastano le metropoli: “La città degli angeli (Los Angeles) è impareggiabile non solo per la frequenza delle sue distruzioni immaginarie, ma anche per il piacere che tali apocalissi regalano ai lettori e alle folle cinematografiche. Si direbbe che il mondo intero faccia il tifo perché Los Angeles scivoli nel Pacifico o finisca ingoiata dalla faglia di San Andreas”. D’altra parte Los Angeles incarna la città dove “hippy, new ager e gay” costituiscono una fetta grossa della popolazione; quale miglior rimedio per i “patrioti” americani se non quello di liquidarli in un film di fantascienza dove sono rappresentati come degli imbecilli che salutano lo straniero, cioè l’alieno che sta invadendo il pianeta. Per queste considerazioni lo scrittore americano William Gibson – profeta del cyberpunk negli Anni Ottanta e Novanta – definì Mike Davis il più cyberpunk scrittore del genere. Le premonizioni del cyberpunk per Davis erano un’anticipazione di ciò che sarebbe avvenuto dopo il 2000, e il crollo delle Torri gemelle un anno dopo e il conseguente “colpo di stato” (parole di Davis) hanno materializzato parte del catastrofismo delle fiction: “La conseguenza immediata dell’11 settembre… è stata quella di togliere il diritto di voto a 35-40 milioni di persone che vivevano negli Stati Uniti, ma che non avevano la cittadinanza. Mia moglie, per esempio, ha una residenza legalmente riconosciuta negli Stati Uniti, ma è cittadina messicana. Per il potere riconosciuto all’amministrazione Bush, lei poteva essere deportata senza giusta causa o, nel peggiore dei casi, imprigionata indefinitamente o anche giustiziata senza processo”.
MARK DAVIS. CATASTROFI E METROPOLI
Ieri come oggi questa visione è di grande attualità. Dalle catastrofi naturali ‒ terremoti, alluvioni, maremoti, ecc. – alla loro trasformazione in “mostri”, fino alla trasformazione dell’altro in nemico assoluto – gli alieni ‒, vi è una attitudine governata dalla paranoia. Che questa paranoia sia reale o immaginaria non sposta il problema di fondo. Goethe chiamò il disastroso terremoto di Lisbona del 1755 “Demone del terrore”, che incrinò radicalmente l’immagine della natura come divinità, così come essa era vista dai philosophes in sostituzione della teologia. Queste osservazioni sull’analogia tra i demoni naturali e quelli sociali Mike Davis le trasse dalla lettura della Dialettica Negativa di Adorno, come mi riferì in una conversazione nel 2005.
Ciò che Davis ha indagato nelle città, in fondo, oltre al declino del potere contrattuale dei lavoratori, è il destino del “radicalmente altro”, del non identico, soggetto a ogni sorta di esclusione, fino allo sterminio. “L’economia globale” – osservava nell’intervista che facemmo per Cyberzone ‒ “e la mobilità universale del capitale, prive di controparte, costituita dai diritti dei lavoratori, ci conducono – virtualmente per definizione – verso un mondo dominato dal terrore. L’unica posizione etica possibile è la non-cooperazione rivoluzionaria: il rifiuto di riconoscere in qualsiasi modo i confini, il controllo e la prescrizione di interi gruppi di persone definite ‘aliene’ o ‘illegali’”.
E le metropoli, come ha sempre osservato in tutti i suoi libri, sono produzioni sociali della violenza e dell’esclusione. Fino a trasformarsi in “Città morte”, vale a dire in inferni metropolitani. Le città per Davis istruiscono una scienza delle rovine – umane e materiali.
Amava Ernst Bloch, soprattutto le sue descrizioni di città e quell’idea di speranza come azione impaziente verso il mutamento dello stato di cose presenti e dove l’arcaismo (il lavorato a mano) del manufatto del contadino è preferito alla levigatezza del mondo borghese. Ma amava anche Walter Benjamin, di cui il capolavoro incompiuto i Passages di Parigi ‒ un’archeologia della città moderna ‒ fu per lui una bibbia teorica e critica, dove il procedimento per citazioni lo ispirò per una visione ecografica del presente.
LE CITTÀ INFERNALI SECONDO DAVIS
Nel maggio del 2005 lo ospitai. Era con i suoi due figli (Roisin e Peter), avuti dal primo matrimonio e che vivevano in Irlanda. Era un viaggio d’iniziazione per i figli, che con lui conobbero varie città europee fino a Palermo. Per due adolescenti il nord e il sud d’Europa con i loro contrasti erano lo scenario in cui la cultura europea dispiegava tutte le sue virtù e contraddizioni. Molto diversa da quella americana, più omologata. Durante il pranzo la conversazione scivolò sulle nostre storie individuali. La mia sorpresa fu che la sua avventura di sociologo, geografo urbano e militante marxista si era formata sulle strade: aveva fatto per anni il camionista. Conosceva a memoria tutte le città del nord America fino ai confini del Messico. Città ricche quelle del nord e della costa del Pacifico, città povere quelle del sud. Questa esperienza lo aveva messo di fronte alle metropoli e alle piccole città, con uno sguardo disincantato: l’immagine turistica delle città come “gioielli dello spettacolo (Las Vegas), etnici o commerciali”, si era rovesciata in “città infernali”, dove le persone sono considerate a partire dalla disponibilità delle carte di credito. Il fatto che Las Vegas sia la città col più alto numero di suicidi al mondo lo aveva molto colpito, fino a farne un capitolo del suo Città morte.
Nella conversazione venne fuori pure la sua amarezza per il fatto che la traduzione di uno dei suoi libri più belli – tradotto in italiano col titolo Geografie della paura – non avesse tenuto conto delle sue indicazioni in merito, che vertevano su un titolo come Ecografie della paura. Mi disse che la metafora ecografica coglieva per intero il senso della sua ricerca, in quanto precede qualsiasi possibile idea di mappatura delle città: la tassonomia va preceduta da una ecografia, altrimenti rischia di essere uno sterile esercizio. Ci teneva molto alla pertinenza dei titoli. E al modo di Foucault intendeva l’ecografia una variante dell’archeologia del presente.
Come uno spettrografo, l’ecografia registra le azioni reali degli uomini in un dato contesto rilevandone le ripercussioni, così come registra l’impatto dell’immaginario e le sue conseguenze nella percezione sociale degli spazi. L’ecografia rileva sincronicamente il passato e il presente di una città. Era questa la sua idea di ricerca, alla quale affiancava l’analisi marxista della produzione sociale dello spazio e della violenza. Mutuando un passo di Adorno mi disse che le città sono “il ventre divenuto come la bocca spalancata di un Leviatano che ingoia tutte le creature che incontra, senza lasciare loro un briciolo di speranza”. Alla domanda su cosa significa svelare la mostruosità del capitalismo, rispondeva: “Significa mostrare la bizzarra combinazione di sadismo e sentimentalismo lezioso che costituiscono il cuore della cultura di massa. Significa confrontarsi con la morte e la sofferenza di bambini a ogni fluttuazione internazionale dei tassi d’interesse. L’abisso morale è senza fondo”.
Ed è contro questo Leviatano, la cui metamorfosi è ben visibile ed esperibile nel cinismo e nella ferocia del capitalismo d’oggi, che la lotta per Mike Davis deve diventare un fatto d’ogni giorno e radicarsi nel locale, senza delegare solo alla speranza questo ruolo.
Marcello Faletra
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