Marcel Proust e la letteratura della memoria a 100 anni dalla morte
Fra gli esponenti più importanti della letteratura europea, Marcel Proust ha elevato a forma d’arte il recupero della memoria come strumento di identità. A un secolo dalla scomparsa, avvenuta il 18 novembre 1922, ripercorriamo la storia di uno scrittore geniale
Quella gardenia impeccabilmente appuntata all’occhiello, che fa il paio con lo sfacciato girasole esibito da Oscar Wilde, denotava una mondanità sofisticata che però non si limitava alla maniera ma che sarà invece la base per un’immortale produzione letteraria.
Di agiata famiglia ‒ il padre era medico e docente universitario, la madre era figlia di un ricco agente di cambio ‒, Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust (Auteil, 1871 ‒ Parigi, 1922), pur minato dall’asma sin dall’infanzia, tentò la carriera militare e si laureò in legge, ma la frequentazione dei raffinati ambienti aristocratici e altoborghesi, dove conobbe Paul Valéry e André Gide, lo spinse a dedicarsi alla mondanità e alla letteratura, in una città che era all’epoca la capitale mondiale della cultura. Ma, pur travolta dalla frenesia della Belle Époque, la Parigi di quegli anni non mancava di lati sordidi, fra cui uno strisciante antisemitismo che si rivelò nella vicenda del capitano Alfred Dreyfus, falsamente condannato per alto tradimento. Un evento che scosse una parte delle coscienze francesi; Proust era fra i sostenitori del militare francese e, oltre a firmare la petizione promossa da Émile Zola su L’Aurore, ne rievocò la vicenda in Jean Santeuil, romanzo uscito postumo nel 1952, ma scritto fra il 1895 e il 1901. Pur contenendo già, in sedicesimo, le tematiche della monumentale Ricerca del tempo perduto, e pur senza una compiuta sintesi fra arte e realtà, il volume ha una sua autonomia ed è una preziosa fonte di elementi biografici sull’autore.
Che in Proust fosse viva la fiamma di un raffinato dandismo al servizio della letteratura fu chiaro quando, nel 1896, uscì la sua prima prova ufficiale, I piaceri e i giorni, vivace raccolta di poemi in prosa che sono altrettante scene di vita in cui vizi e virtù degli alti ceti sociali sono passati all’attento e ironico esame della penna, e il cui sunto è magistralmente racchiuso in questo periodo: “La vita è stranamente facile e dolce per certe persone di una grande signorilità naturale, intelligenti, affettuose, ma capaci di ogni vizio, benché non ne esercitino nessuno pubblicamente e non si possa accusarle di uno in particolare”. Alle medesime conclusioni era giunto anche Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray, altro caustico specchio dell’Europa decadente di fine secolo.
LA MEMORIA SECONDO PROUST
Il Decadentismo, tuttavia, è solo un aspetto della letteratura proustiana, che ha il suo fondamento nell’analisi e nella narrazione del tempo e della memoria, due concetti fluidi eppure sostanziali per dare un senso al vagare dell’individuo sulla Terra. Il monumentale ciclo in sette volumi Alla ricerca del tempo perduto, che lo stesso Proust definì alla stregua di una cattedrale gotica, con tanti corpi laterali e zone d’ombra, può essere considerato un gigantesco caleidoscopio di persone e vicende filtrate e “sistematizzate” appunto dallo scorrere del tempo. Nell’idea di Proust, la realtà si forma soltanto nella memoria, perché, riecheggiando Sant’Agostino, la memoria è l’unico strumento in grado di cogliere le trasformazioni che il tempo causa alle cose e alle persone; conservare la memoria, quindi, significa conservare l’identità. Per questo, il tempo interiore di Proust richiama anche quello soggettivo teorizzato dal filosofo Henri Bergson, di cui era cugino e con cui ebbe più di uno scambio d’idee; non casualmente, nei sette volumi vengono citate pochissime date, perché ogni individuo ha una propria sensazione temporale rispetto alle medesime situazioni, e il tempo si dilata, si distorce, si liquefa, proprio come gli orologi che Salvador Dalí immortalò nell’evocativo La persistenza della memoria; il ricordo cosciente viene richiamato e in parte alterato dall’azione inconscia di una sensazione qualsiasi (ad esempio il sapore della celebre madeleine). Un processo quindi irrazionale, strettamente personale, giocato sull’alternanza fra tensione psicologica e imprevedibilità della psiche umana.
Lo stile di Proust è avvolgente, raffinato, una sinfonia di parole sussurrate che fa sembrare brevi libri in realtà molto lunghi, e dove ogni parola ha una sua ragion d’essere; niente è superfluo, aggettivi, metafore, iperboli, lunghe frasi incidentali, ogni elemento concorre a costruire un arabesco all’apparenza labirintico, in realtà funzionale alla rappresentazione dello sfuggente tempo interiore. Perché ricercare la memoria diventa una forma d’arte, propedeutica alla forma d’arte più importante, ovverosia la ricerca di se stessi.
IL TEMPO E LA SOCIETÀ PER PROUST
Alla ricerca del tempo perduto è anche uno splendido ritratto della borghesia e della nobiltà nella Parigi della fine dell’Ottocento, che, dopo la sconfitta di Sedan subita nel 1871 a opera dell’esercito prussiano, vede affievolirsi il primato francese sull’Europa a favore dell’Impero tedesco. La Terza Repubblica vide quindi sorgere, per reazione, una forte ondata di nazionalismo che, come accennato, si tradusse pure in antisemitismo; vi fu però anche un vasto programma di riforme sociali, non sempre ben accetto dai ceti più conservatori.
Attraverso un’indiretta riflessione sui recenti accadimenti politici e la situazione sociale in Francia, Proust cerca anche di stimolare la ricerca di una memoria collettiva che possa restituire un’identità a una classe sociale in crisi, ancora emotivamente segnata dalla caduta di Napoleone III e del suo prestigio militare. Emblematica un’osservazione vergata fra le pagine di All’ombra delle fanciulle in fiore (secondo volume del ciclo): “Il pacifismo moltiplica talvolta le guerre e l’indulgenza la criminalità”. Politicamente confusa, l’alta borghesia cercava comunque di darsi un tono “esibendosi” nei salotti mondani o dandosi al buon tempo nell’animato e licenzioso quartiere di Montmartre. Attraverso gli icastici ritratti delle famiglie dei Guermantes e dei Verdurin, Proust irride una borghesia arricchita che si circonda di lusso e oggetti sfarzosi, ma che per quanto si sforzi non possiederà mai l’eleganza dell’intelligenza e dell’umiltà, e soprattutto, in un’Europa che non è più quella napoleonica, non potrà ricostruire un impero.
Resta comunque per il protagonista ‒ una sorta di alter ego dell’autore stesso ‒ il piacere dolceamaro di rievocare un’epoca componendo un affresco sociale intriso di ispirate pagine di critica d’arte, letteraria, estetica, che fanno di Proust uno scrittore “totale” che innalza la figura umana a livelli di contrastante bellezza e poesia mai raggiunti da nessuno.
Niccolò Lucarelli
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