Futuro Antico. Intervista alla psicoanalista Simona Argentieri
Non si esprime sul futuro ma vede nel passato uno strumento per costruire il presente e il domani Simona Argentieri, caposaldo della psicoanalisi italiana e protagonista del nuovo capitolo della rubrica curata da Spazio Taverna
Il rapporto tra psicoanalisi e linguaggio, ma anche tra psicoanalisi e arte, nonché il pregiudizio, sono alcuni dei temi affrontati dalla psicoanalista Simona Argentieri (Firenze, 1940), invitata da Spazio Taverna a rispondere a una serie di domande su passato e futuro.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Tutto. Non ho punti di riferimento fissi e tanto meno lineari. Direi che sono ‘onnivora’ fin dai miei giovani anni. Mi è sempre piaciuto leggere, ascoltare, vedere di tutto ‒ bello e meno bello ‒ in modo libero e capriccioso ben prima di organizzare una identità, delle opinioni o delle ispirazioni. Il cinema di ogni tempo e paese, poi, mi accompagna da sempre ed è ben più di una ‘distrazione’. Semmai qualche riferimento più saldo e amato è emerso a ritroso. Quando ad esempio, nel corso di uno studio sulla molteplicità di significati dell’autoritratto, ho avuto bisogno di rivisitare la storia della pittura; oppure quando è stato Mondrian ad aiutarmi a capire il senso dell’“astratto” nell’arte figurativa e nella mente.
È stato invece felicemente casuale un quadro nella casa di campagna dei nonni, di un anonimo di fine ‘700 (forse non tanto pregevole, ma a me molto caro), che raffigura una Sacra Famiglia dove è San Giuseppe a occuparsi del bambino, mentre la Madonna è seduta in un angolo a leggere, che mi ha dato lo spunto per il libro Il padre materno.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Forse è l’indagine su ciò che accade nella mente di chi parla, pensa, sogna in più lingue. Ho cominciato a interessarmene molti anni fa nella dimensione clinica, insieme a due amici e colleghi ‒ Jacqueline Mehler Amati e Jorge Canestri ‒ a proposito della peculiarità di condurre terapie psicoanalitiche nelle quali o l’analista o l’analizzato non parlava nella sua lingua madre. È stato affascinante comprendere, ad esempio, come talora ripercorrere i propri vissuti in una lingua ‘nuova’ consentisse di eludere nodi infantili di sofferenza nevrotica; al tempo stesso una difesa e una risorsa. Da questa esperienza sono poi derivati studi, ricerche, seminari e libri (La Babele dell’inconscio – lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica) sulle vicende storiche dell’emigrazione degli psicoanalisti in terre straniere; sul significato profondo per grandi letterati –come Nabokov, Canetti, Cronin, Beckett e tanti altri ‒ dell’aver scritto in idiomi diversi da quelli dell’infanzia. E ancora ci è stato possibile confrontarci con le acquisizioni della psicolinguistica, circa le capacità precocissime di bambini appena nati di riconoscere il suono della lingua materna ben prima dell’apprendimento linguistico.
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Moltissima importanza. Ma è un genius loci composito e cangiante. E seppure il luogo può essere lo stesso, ciascuno lo declina a modo suo. Posso portare ad esempio la campagna toscana, dove ho trascorso alcuni dei primissimi anni della mia vita, nelle cui immagini si intrecciano la magia dei ricordi infantili, poi i racconti fatti da altri; come pure le storie deliziosamente paurose di Emma Perodi sulle leggende del Casentino; e infine le esperienze del ritorno in età adulta. Un mosaico o un puzzle, più che una integrazione. Lo stesso accade a tanti di noi, quando abbiamo a lungo sognato e desiderato di conoscere un luogo, prefigurato nella fantasia tramite film e letture; e poi, una volta che finalmente arriviamo davvero a visitarlo, si prova una sensazione di straniamento e di irrealtà.
PASSATO E FUTURO SECONDO SIMONA ARGENTIERI
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Direi che l’indagine del passato, particolarmente del passato remoto individuale, è il mio mestiere. È diventato quasi un luogo comune psicoanalitico cercare la spiegazione della personalità adulta, normale o patologica, nelle vicissitudini infantili. Non mi trovo a mio agio invece nel far previsioni. Sono piuttosto propensa a fare profezie a ritroso, a capire per quali antichi percorsi si costruisca la nostra personalità: la deformazione inconscia del ricordo, le cosiddette memorie di copertura, la coazione a ripetere. Senza dimenticare che il passato non è la premessa di un destino già segnato; ma il punto di partenza per uno sviluppo e un futuro potenziale che è nelle nostre mani; che poi è anche il senso della cura.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Questa è davvero una domanda difficile, perché attualmente assistiamo a un progressivo impoverimento del patrimonio teorico-clinico della psicoanalisi. Si privilegiano scorciatoie e semplificazioni del percorso formativo. Sono sempre meno gli allievi che provengono dalla medicina e dalla psichiatria e che hanno una esperienza vissuta del rapporto col malato e la sua sofferenza. È sempre più arduo proporre uno studio approfondito e un lungo impegno in un tempo e in un’epoca che privilegiano l’emergenza e il trattamento dei sintomi anziché delle cause. Peccato perché, nonostante gli indubbi limiti, gli strumenti conoscitivi e terapeutici della psicoanalisi sono incomparabili e talora, con lento, laico miracolo, possiamo eliminare la sofferenza inutile della nevrosi e cambiare davvero la vita di una persona.
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Il tema della cosiddetta post verità mi ha impegnata molto, perché si inserisce nel mio più ampio interesse per il ‘falso’. Non tanto nelle forme clamorose della menzogna intenzionale, quanto nella dimensione intrapsichica, per cui si mente anche a se stessi. Alludo alle strutture psicologiche difensive che si organizzano con quote inautentiche della personalità (‘come se’, ‘falso sé’, processi imitativi, ambiguità).
Il sacro, come verità rivelata o come valore assoluto trascendente, invece non mi appartiene. Altra cosa può essere invece se per sacro si allude alla spiritualità, al pensiero simbolico, all’ideale e magari all’utopia.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
No, proprio non me la sento di formulare ipotesi catastrofiche o apocalittiche. Né tanto meno di proporre illusioni consolatorie. Preferirei semmai mobilitare le forze positive e consce dell’io che possono renderci meno passivi rispetto agli eventi della sorte.
Marco Bassan
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