Futuro Antico. Intervista alla regista Roberta Torre
Regista del famosissimo film “Tano da morire”, Roberta Torre parla del futuro e dell’esigenza di fare arte. Oggi più che mai
Roberta Torre (Milano, 1962), regista e sceneggiatrice, nel 1997 vince il Nastro d’argento come miglior regista esordiente con il suo primo film, Tano da morire. Il film ha partecipato alla 54esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vincendo il Premio FEDIC, il Premio Kodak e il Premio Luigi De Laurentiis per il miglior film d’esordio alla regia. Il film ha vinto anche due David di Donatello (per la migliore colonna sonora e il miglior regista esordiente) e altri due Nastri d’Argento per la migliore colonna sonora e il miglior ruolo non protagonista (premio assegnato all’intero cast femminile).
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Mescolo pittura, cinema, fotografia, musica in modo disordinato e senza soluzione temporale, epoche diverse, pop e neoclassico, sono famelica e onnivora. Di certo mi sono nutrita e mi nutro costantemente di immagini e immaginari altrui. Nel tempo questi sono sedimentati e si sono trasformati entrando in contatto con il momento storico che stavo vivendo. Le Madonne di Paolo Uccello, le pale di Pietro Lorenzetti, la Deposizione di Caravaggio, Jackson Pollock, Basquiat, Schifano, Emanuele Cavalli ‒ una recente scoperta per me ‒, gli ex voto dei devoti a santa Rosalia, le edicole votive di Napoli, e poi Canova, Otto Dix, tra i fotografi Robert Frank, Ghirri, Sarah Moon e Nan Goldin, Vivian Maier, Alex Prager, Martin Parr. Gli abiti di Yohji Yamamoto, il punk di Vivienne Westwood. Tra i registi sicuramente il Billy Wilder di Viale del Tramonto, il Fellini de La Dolce Vita, Antonioni, Wong Kar-wai, Béla Tarr, Paolo Sorrentino.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più?
Potrei dire che il mio primo film Tano da morire conteneva in sintesi tutto quello che poi ho continuato a esplorare nel corso degli anni e tutti i codici che amo, direi un film-manifesto: una storia vera che nasceva dalla mitologia urbana, in quel caso era la storia di un piccolo boss di quartiere, un grande genius loci che sorreggeva tutto l’impianto drammaturgico, Palermo, e poi storie umane e attori che erano personaggi senza essere attori, facce che erano già ritratti. E poi la musica, spontanea e rielaborata, in quel caso era la musica neomelodica che non ha mai smesso di affascinarmi per il suo legame intrinseco con il territorio.
Infine la possibilità di destrutturare tutto e utilizzare dei codici narrativi classici trasformandoli, in quel caso il musical americano degli anni d’oro riadattato a musical di strada dove i danzatori erano marionette impazzite. La libertà di linguaggio che ha quel film mi ha permesso di mescolare un livello alto di narrazione con uno molto pop che ho sempre amato. In realtà non so se sia il film che mi rappresenta di più, certamente è stato quello più libero da condizionamenti e quello dove ho potuto esprimere meglio me stessa.
Quali sono le sue origini?
Nasce da una lunga ricerca sul campo, anni di osservazione di una realtà che non conoscevo, l’Italia del sud degli Anni Novanta, in particolare Palermo. Si torna sempre sul luogo del delitto e io ogni volta che comincio un nuovo progetto ritrovo la strada come farebbe Pollicino, ispirata dalle stesse suggestioni che ho cominciato a riconoscere in quel film. Anche se ora sono molto lontana da quei luoghi e da quelle storie, il desiderio che mi spinge a ricominciare ogni volta una nuova storia, un nuovo progetto, è simile.
Che importanza ha per te il genius loci all’interno del tuo lavoro?
Tutto nasce da quello. Per molti anni il mio ha trovato l’aspetto di Palermo, una città così potente da obbligare una rappresentazione o quantomeno da ispirarla ininterrottamente. Negli anni è mutato, mi ha spinto altrove. Oggi trovo ispirazione in luoghi circoscritti, possono essere una casa abbandonata, per esempio come lo è stata quella delle Favolose, una casa borghese degli Anni Settanta bolognese che è rimasta intatta e dove l’abbandono ha costruito il suo fascino e le sue memorie, la sua polvere è stata narrativa per me. Oppure ancora una casa in cui ho ambientato il mio nuovo film Mi fanno male i capelli sul litorale di Sperlonga e che ho ricostruito come un teatro di posa degli Anni Sessanta, ispirata da case e suggestioni che ho vissuto nelle case che ho abitato da bambina ‒ le stesse luci, le stesse ombre e i colori, le stesse tende: i salotti di Cassina, le lampade di Serge Mouille. Quelli della mia infanzia sono anni che porto con me e ricerco continuamente quando cerco un luogo dove cominciare a costruire una storia. “Potevi sprizzare scintille ovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse quella giusta, che si stesse vincendo. Era quella credo la nostra ragion d’essere, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male”: questo frammento del romanzo Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Stockton Thompson descrive bene la sensazione che mi porto dietro fin dall’infanzia, legata inevitabilmente a quegli anni, e ricerco in ogni luogo.
PASSATO E FUTURO SECONDO ROBERTA TORRE
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Me lo augurerei. Ma vedo che periodicamente il passato torna, come è inevitabile, in suggestioni che vengono rielaborate a seconda dello spirito del tempo. È difficile immaginare qualcosa di nuovo se non si hanno radici nel passato, eppure ho la sensazione che specialmente nel nostro Paese ci sia una sorta di rimozione forzata del passato. Non so spiegarmi il motivo se non pensando che l’Italia abbia avuto una così potente ricchezza artistica in tutti i campi il confronto è sempre complicato e spesso impossibile da reggere. Che questo sia un tempo fragile rispetto a tanto passato mi sembra evidente.
Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Ho la sensazione che ora ci sia un’omologazione dettata da forze difficilmente contrastabili, potrei dire economiche, politiche ma non solo. È un pensiero unico che con violenza conduce tutti dalla stessa parte, ad abbracciare univoche visioni, immagini preconfezionate, rassicuranti e inautentiche. Il consiglio che darei è quello di cercare la propria voce pur sapendo che questo non porterà ad avere vita facile. Anzi, forse sarebbe il modo certo per un percorso accidentato. Ma del resto se non fai questo a che cosa serve fare arte, ammesso che ci sia ancora spazio oggi per l’arte?
In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
è una scelta molto intima, molto personale quella di cercare il sacro. Personalmente non troverei interesse senza questa ricerca, ma è davvero una strada troppo personale per farne un assunto generale. Il sacro non è un punto d’arrivo, è il senso di un percorso. Dovremmo chiederci che cos’è oggi il sacro piuttosto. Troveremmo che l’uomo è stato da tempo sbalzato fuori da questo territorio.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
“Uno dei compiti dell’arte è sempre stato quello di creare esigenze che al momento non è in grado di soddisfare”, ci dice Walter Benjamin.
Essendo una creatura del Novecento, ho attraversato un secolo che aveva ancora nell’uomo il suo centro. L’individuo era in grado di creare qualcosa e all’individuo si guardava con interesse. Il futuro mi sembra escludere per sempre questa possibilità. Non più individui, quindi, ma movimenti e flussi ideologici a cui tutti saranno portati, consapevoli o meno, ad aderire con risultati che possono variare a seconda dei momenti, certamente a esiti affascinanti e liberatori cui possono alternarsi e legarsi visioni oscurantiste. I grandi temi sono questi, in parte già evidenti e legati profondamente tra loro: l’ambiente, il postumano, la conservazione della memoria oltre la fine della vita su questa terra.
Marco Bassan
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati