Giulia Mangoni, l’artista che dipinge le streghe della Ciociaria
Tradizioni popolari ciociare e rimandi alla cultura brasiliana si mescolano nella pittura di Giulia Mangoni, in mostra alla galleria Operativa Arte Contemporanea di Roma
“In Ciociaria c’è una tradizione secondo la quale tutte le donne possono essere streghe. Il modo in cui avviene la trasformazione è con l’ungersi d’olio, quindi attraverso quest’idratazione della pelle e dei capelli le streghe diventano prima invisibili e poi si trasformano in qualsiasi cosa, persino in vento, escono dalla finestra e fanno tutto quello che vogliono”, racconta Giulia Mangoni (Isola del Liri, 1991), trovando una certa assonanza tra quest’immagine della cultura popolare e il suo lavoro pittorico che si esprime attraverso i colori a olio.
“Utilizzando l’olio, di quadro in quadro, la strega cambia forma”. L’artista, che ha partecipato recentemente a Una Boccata D’Arte 2022, per la mostra La strega si trasforma persino in vento, curata da Beatrice Benella alla galleria Operativa Arte Contemporanea di Roma, ha realizzato un corpus di opere che interpretano il patrimonio storico e culturale della Ciociaria attraverso figure archetipiche come la strega (“ianara”) o il “pupanaro” (licantropo). Figure che provengono sia dalla tradizione orale che dalle pagine di libri come Gente di Ciociaria (2007) e I Cunti ‒ Saghe, miti e leggende in Ciociaria (2018), intrecciandosi anche a ricordi e memorie familiari come nell’intervento Donna Luisa e i suoi due mariti per la vetrina di via della Consolazione.
INTERVISTA A GIULIA MANGONI
Come nasce questo progetto dal titolo onirico e poetico?
La strega si trasforma persino in vento è uno dei “dettati” che ho raccolto in quest’ultimo anno, facendo delle ricerche sulle credenze popolari nel territorio ciociaro. Quando, circa otto anni, sono tornata a vivere a Isola del Liri con il mio compagno, l’artista inglese James Hillman, piano piano ho cominciato a creare delle relazioni di ricerca lavorativa con le persone del posto che, scoprendo questo mio interesse per la rappresentazione degli aspetti della cultura locale e folklorica, mi hanno donato libri o “dettati” che sono andati a creare una sorta di archivio personale. Questa mostra, sia nei dipinti che nel wall painting, è un insieme di “traduzioni” dell’idea della strega, la “ianara” ciociara, ma anche di interpretazioni più personali di storie che non hanno ancora una figura, ma che mi sono state raccontate sia nell’infanzia che nel contemporaneo.
Oltre ai libri, questo tuo archivio contiene altri oggetti?
Un libro, in particolare, è il cuore dell’archivio cartaceo, Gente di Ciociaria di Ugo Iannazzi ed Eugenio Maria Beranger, pubblicato nel 2007 dal Museo Antropologico “Gente di Ciociaria” di Arce. Si tratta di una raccolta di testi di autori locali, dove ogni capitolo è corredato di una bibliografia che è stata per me il punto di partenza per andare a scoprire fisicamente posti o situazioni. Si è creato, quindi, un archivio sia di oggetti che di relazioni profonde con luoghi e persone che sono entrati completamente nel mio lavoro, come la Fattoria Didattica Il Gallo Larino, che alleva animali in estinzione nel basso Lazio, o gli artigiani Roberto Tersigni e Paola D’Orazio, che da anni fanno un lavoro di recupero di storie orali che trasformano in oggetti in ceramica.
Accennavi ai racconti che ascoltavi da bambina.
Anche quando ci siamo trasferiti in Brasile, dove ho vissuto per dieci anni, essendo mia mamma brasiliana, sono sempre tornata in Ciociaria. Ho tantissime memorie dell’infanzia e alcuni miei quadri parlano di quei racconti, come Pupanaro (protetto) che si riferisce al lupo mannaro. Mi ha colpito la normalizzazione di questa figura che, diversamente dal personaggio di Halloween dell’uomo-lupo che attacca ed è cattivo, in Ciociaria è una persona vera con problemi psicologici. Mi è sempre stato descritto quasi con tenerezza, con aneddoti molto pratici su come andava gestito, seguendo determinate regole pratiche come salire tre gradini, chiudere le finestre, bagnarlo o pungerlo con un ago così da farlo calmare. Il lupo mannaro era un uomo squilibrato, la cui fragilità si manifestava solo in certi momenti, perciò non andava escluso completamente dalla comunità che, anzi, se ne prendeva cura. Anche nel mio quadro è ritratto come una persona che non sta molto bene, circondata da un bosco di occhi: persone che vegliano su di lui.
Amico orso (brother), invece, appartiene alle storie familiari.
Sì, Amico orso (brother) è un quadro molto più intimo. Antonio, mio fratello, da bambino sognava uno gnomo che si trasformava in orso. Si svegliava nella notte con quell’incubo. Il quadro è la descrizione di quel sogno, ma nel tradurlo mi è venuto il desiderio di trasformare lo gnomo-orso in una figura paterna che fosse benefica per mio fratello.
LA PITTURA DI GIULIA MANGONI
Nella rappresentazione figurativa, tecnicamente segui una determinata metodologia?
Wall painting e dipinti su tela sono due processi paralleli. In entrambi sono rappresentati personaggi che conosco bene e che entrano quasi come attori nel mio lavoro. Dedico al disegno almeno un paio d’ore al giorno, tutti i giorni e ciò mi permette di poter disegnare, come nel wall painting che ho realizzato per questa mostra, senza un disegno di base. L’ho fatto in meno due giorni non perché sia velocissima, piuttosto per la mia familiarizzazione con quelle forme a cui lavoro per mesi. Invece, tutti i quadri hanno un inizio molto chiaro, ma alla fine sono delle scoperte. In generale la figura serve a stabilire delle relazioni di colori: è come la parola all’interno della frase a cui dà un senso.
Che influenza ha avuto l’eredità brasiliana nel tuo lavoro artistico?
È stata ed è molto importante per me. Ho vissuto in Brasile da quando avevo dieci anni ai miei vent’anni. A Rio de Janeiro ho visto i primi quadri di arte contemporanea e per la prima volta mi sono chiesta cosa fosse la pittura. Ricordo le opere di Beatriz Milhazes con la sua idea di sviluppo del paesaggio decorativo che diventa “maximalismo”. Una decorazione che si mangia la figura, non è obbediente e non rimane lì a imbellire la situazione, ma diventa quasi volgare, quasi troppo. Mi porto dentro questa linea tra volgarità e decorazione, soprattutto nell’uso dei colori e nel considerare il kitsch o il popolare come politica visiva. Ad esempio in Masceca & agliutt (mastica e inghiotti), in cui ho rappresentato una strega che non è mai sazia, neanche dei propri nemici ‒ invece di lottare contro gli ostacoli se li mangia ‒, quest’idea di mangiare e metabolizzare le difficoltà per farle proprie, che tra l’altro mi ha aiutato molto psicologicamente a gestire delle situazioni familiari complicate, l’ho ritrovata proprio nella cultura brasiliana. Il tropicalismo parla del cannibalismo: nel Manifesto Antropófago Oswald de Andrade afferma che se mangi il tuo nemico e lo digerisci, diventa te.
Manuela De Leonardis
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