Parliamo di Alessandro Manzoni a 150 anni dalla sua morte
Scrittore, saggista e poeta, universalmente identificato con I promessi sposi e Il 5 maggio. Con Giuseppe Verdi è stato fra i “padri intellettuali” del Risorgimento. Ecco come Manzoni cambiò il suo tempo
Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 1785 – 1873) conobbe un’infanzia e un’adolescenza tristi e solitarie, allievo prima dei somaschi e poi dei barnabiti, e lontano dai genitori (Giulia Beccaria e Pietro Manzoni) che si erano presto separati, un evento sul quale probabilmente pesò anche la vociferata relazione della madre con Pietro Verri. In reazione al libertinaggio dell’aristocrazia dalla quale proveniva, il giovane Alessandro sviluppò un profondo rigore morale, anche se i suoi riferimenti intellettuali, oltre a Vittorio Alfieri, furono Parini, Monti, Dante e i classici latini. E per mezzo di Parini anche Manzoni respirò una certa aria d’Illuminismo, anche se non paragonabile al fervore del Caffè di Verri. Fu comunque sufficiente ad allontanarlo dalla religione cattolica, alla quale ritornerà clamorosamente nel 1810. Il suo fu quindi un percorso interiore assai tormentato, alla ricerca costante di un equilibrio.
MANZONI E IL CATTOLICESIMO
Cresciuto in un ambiente familiare scarsamente credente, il giovane Manzoni preferì seguire il vento dell’Illuminismo, il cui pensiero razionale sembrava all’epoca il più importante strumento di progresso scientifico e civile. L’avvento di Napoleone e il caos politico che ne derivò, fecero però vacillare molte delle precedenti certezze; lo stesso Manzoni ebbe i primi dubbi, e avvertì il bisogno di un riavvicinamento ai saldi valori della fede, un riavvicinamento favorito anche dalla prima moglie, Enrichetta Blondel, calvinista che volle avvicinarsi al cattolicesimo. Cattolico praticante, rimase però lontano dai fanatismi e non rinunciò a criticare l’appoggio di Roma alla Restaurazione; riteneva infatti che la missione della Chiesa non potesse svolgersi in contrasto con la modernità (anche in fatto di tendenze politiche e sociali); al contrario, proprio la Chiesa doveva porsi a capo di quelle istanze innovative, proprio in virtù della profondità di visione del Vangelo sulla natura umana, e costruire così una società più giusta. In filigrana, è questa la missione che il Cardinale Federigo Borromeo porta avanti in quel “romanzo milanese” che più di ogni altra opera ha dato a Manzoni imperitura fama. Ma la conversione religiosa emerge soprattutto negli Inni Sacri, permeati di un certo Romanticismo; e una commistione di cattolicesimo e Romanticismo la si ritrova anche nelle tragedie Il Conte di Carmagnola, Adelchi, Ermengarda, nelle quali le figure degli innocenti protagonisti oppressi dalla malvagità del secolo sono una chiara metafora del Cristo sulla Croce. Ma anche nel Cinque Maggio, componimento scritto per commemorare Napoleone Bonaparte, in chiusura Manzoni immagina il ravvedimento dell’uomo e la sua ammenda per il proprio orgoglio e i propri peccati.
I PROMESSI SPOSI
Il capolavoro di Manzoni resta senza dubbio I promessi sposi, grandioso affresco storico e sociale della dominazione spagnola in Lombardia. Ebbe però una genesi tormentata cominciando dal Fermo e Lucia, romanzo nero goticheggiante, passando per la versione del 1827, fino alla stesura definitiva del 1840 nell’edizione con le splendide incisioni di Francesco Gonin.
Il Fermo e Lucia si presenta come un’opera che, per differenziarsi dal romanzesco e dall’avventuroso tipici di Walter Scott, narra una vicenda dai chiari connotati storici e ambientali della Lombardia del XVII secolo, non ci sono eroi, nemmeno fra i personaggi “positivi”, ma soltanto un guazzabuglio d’umanità che si muove fra istinto, violenza, lussuria, venalità e meschinità. Con prospettiva illuministica, l’autore esprime una velata polemica verso una società profondamente corrotta e irrazionale. Un romanzo complesso, a suo modo affascinante, ma sicuramente non immediato. Per questo Manzoni pensò di alleggerire l’approccio con I promessi sposi, la cui prima versione uscì nel 1827: scompare l’atmosfera gotica, e personaggi come la Monaca di Monza o il Conte del Sagrato (che diventa l’Innominato) perdono molta della loro tragicità per trovare redenzione nella fede e nella provvidenza, tuttavia rimane il valore della testimonianza storica, ben armonizzata con quel “vero poetico” che costituisce il momento più alto della scrittura manzoniana.
La strada era quella giusta, ma mancava ancora qualcosa: un registro linguistico con cui farne un romanzo popolare a tutti gli effetti. La versione dei Promessi sposi del 1840 rappresenta probabilmente un tassello importante di quell’equilibrio che Manzoni cercava incessantemente: “risciacquando in Arno” gli ormai celebri e proverbiali panni; scegliendo l’italiano parlato a Firenze (una lingua “viva e vera”, al di là dei regionalismi e delle prescrizioni della Crusca), lo scrittore raggiunse quella compiutezza linguistica che lo avvicinava anche ai lettori meno colti. E mentre altri lavori come l’Adelchi o Il conte di Carmagnola risentono della patina del tempo, I promessi sposi mantengono intatta la loro freschezza. All’epoca, il romanzo rappresentò un momento letterario rivoluzionario: forniva al pubblico (che si stava formando sulla scia delle riforme illuministiche e quindi dell’introduzione delle prime scuole pubbliche per il popolo) una lingua che univa gli italiani, e soprattutto raccontava una vicenda di popolo con le sue lotte quotidiane. Non parlava di Unità, di combattere l’Austria, eccetera: ma in un certo senso, istillava anche nei lettori più umili la consapevolezza della necessità di un cambiamento dei tempi. Inoltre, l’accuratezza delle descrizioni fisiche e psicologiche dei personaggi (e i bravi, l’Innominato, il Conte zio, sono senza dubbio fra i più incisivi) accostano Manzoni a certa pittura italiana del Cinquecento; in particolare torna alla memoria l’enigmaticità dei ritratti dei pontefici eseguiti da Tiziano (Paolo III) o Raffaello (Giulio II e Leone X); Manzoni riproduce con maestria i sentimenti che contrastano l’animo umano, la cupidigia di potere, la malvagità.
MANZONI E IL RISORGIMENTO
Il patriottismo di Manzoni, che più tardi lo portò ad appoggiare la causa dell’Unità italiana, risale al primo Ottocento e ha una matrice illuminista, nel senso che è ispirato dal diritto universale di ogni popolo alla libertà da qualsiasi forma di oppressione. Nel componimento Trionfo della libertà (1801), il giovane poeta si scaglia contro la tirannia del potere politico e religioso e immagina appunto la vittoria della Dea Libertà sulla tirannia, la superstizione e l’ignoranza. Ovviamente, con il trascorrere degli anni e il consolidarsi del movimento patriottico (la Carboneria fu molto attiva nel Lombardo-Veneto), Manzoni identificò la causa della libertà con quella dell’Unità, scrivendo una serie di odi politiche (Aprile 1814, Il proclama di Rimini e Marzo 1821) che però circolarono clandestinamente e videro la luce soltanto nel corso delle celebri Cinque Giornate del marzo 1848, quando, almeno temporaneamente, gli austriaci furono estromessi da Milano. Ragioni anagrafiche (aveva ormai doppiato il capo della sessantina) non gli permisero di prendere parte ai fatti d’arme, ma suo figlio Filippo si unì agli insorti rappresentando anche il patriottismo del padre. Gli stessi Promessi sposi possono essere visti, fra le righe, come una critica al potere straniero in Italia, quello spagnolo in prima istanza, quello austro-ungarico per una lettura in “controluce”.
Nonostante il talento e la fama, Manzoni non ebbe vita facile: vari problemi di salute (nevrosi, agorafobia) e i drammi familiari (la perdita della moglie e di diversi figli) lo portarono a un progressivo isolamento esistenziale e a una diminuzione dell’attività, che si limitò ad alcuni saggi linguistici e storici. Austero, elegante ma freddo, coerente nelle proprie scelte e opinioni, nemico delle pose e del clamore fu, a differenza di Foscolo, come ha scritto Montanelli, il vero Vate dell’Italia risorgimentale.
Niccolò Lucarelli
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