Cos’è oggi l’Art Brut? L’intervista a Gustavo Giacosa
Gli artisti appartenenti a questo filone sono coloro che più generalmente vengono definiti “outsider”. Ma è una pagina della storia dell’arte che merita più riletture, quella dell’Art Brut: qual è la sua dimensione contemporanea?
Regista e curatore indipendente, nonché appassionato collezionista, Gustavo Giacosa (Sunchales, 1969) è tra i principali nomi nel panorama della ricerca attuale sull’Art Brut. Tra le mostre da lui curate si ricordano Banditi dell’arte alla Halle Saint-Pierre di Parigi e Corps alla Collection de l’Art Brut di Losanna. È inoltre fondatore di SIC12 artstudio, uno spazio espositivo situato a Roma volto alla conservazione e alla valorizzazione della sua collezione di Art Brut. Con lui abbiamo parlato di questo e di molto altro.
Cos’è l’Art Brut? Intervista a Gustavo Giacosa
Spesso ci si riferisce all’Art Brut come a un movimento ormai storicizzato e relativo alla personalità di Jean Dubuffet. Qual è la sua dimensione contemporanea?
L’Art Brut non è un movimento. Attraverso la sua riflessione critica sulla cultura e sul suo farsi sistema, Jean Dubuffet ci propone non tanto un movimento quanto un utensile per pensare e ripensare l’arte. Tramite la nozione di “Art Brut”, Dubuffet prende di mira un sistema dell’arte costruito intorno alla monetizzazione e al valore di mercato. Al contempo rifiuta il criterio, ormai del tutto relativizzato, che bisogna studiare e saper leggere la storia dell’arte per essere artisti.
Oggi per tanti è ancora un automatismo pensare che l’opera di un artista ha valore se si vende o è mostrata. Ebbene, la riflessione di Dubuffet tende a minare e decostruisce questo automatismo. L’Art Brut è un’arte che non ha prezzo, è un enigma che ci giunge come un dono offerto da persone che, non considerandosi artisti né cercando di esserlo, hanno modellato attraverso un sapere organico un esclusivo sistema di pensiero. Parliamo quindi di espressioni artistiche che non sono state concepite come prodotti da vendersi o per arrivare a sedurre un determinato pubblico. Queste opere hanno per solo destinatario il proprio autore. Essi infondono un carattere fortemente identitario ai risultati di atti che hanno a che vedere più con rituali privati che con l’esercizio del disegnare o del dipingere come noi lo intendiamo.
Quali valori emergono dalle opere di Art Brut?
Questi autori (Dubuffet preferisce il termine autori a quello di artisti) ci fanno riflettere sulla nozione di gratuità, di condivisione e di scambio. Valori quanto mai contemporanei alla crisi del pensiero capitalista. L’Art Brut ha spesso l’effetto di un pugno nello stomaco che ci arriva senza sapere perché.
La possibilità che oggi l’arte produca una reazione simile è quanto mai di attualità.
Storia e presente dell’Art Brut
In cosa l’Art Brut odierna è diversa rispetto alle origini?
Lavorare a partire da mezzi espressivi ridotti quasi all’essenziale resta una delle sue caratteristiche stilistiche. Oggi, tuttavia, si può affermare che nel mondo globalizzato gli autori dell’Art Brut hanno, come tutti, maggiore possibilità d’accesso all’informazione e riescono a procurarsi materiali sui quali lavorare con più facilità. Soffrono meno la segregazione. Basti pensare ai tanti autori che in passato si sono dovuti servire dei muri degli ospedali psichiatrici come supporto espressivo…
Qual è la situazione dell’Art Brut dal punto di vista istituzionale?
Nel corso dei decenni si è passati dall’esistenza di un solo luogo specifico che aveva per missione la conservazione della collezione creata da Dubuffet e il proseguimento della sua missione (la Collection dell’Art Brut di Losanna) al moltiplicarsi di gallerie d’arte, piccoli musei e collezioni private. Il peso di questa ondata inarrestabile ha progressivamente captato l’interesse delle grandi istituzioni museali. Negli ultimi dieci anni assistiamo a un movimento internazionale di emersione, riconoscimento e ri- territorializzazione dell’Art Brut. In sintonia con una rilettura, più inclusiva, della storia dell’arte, l’Art Brut esce da un circuito specifico e dedicato (a volte ghettizzante) e fa il suo ingresso in fiere internazionali d’arte contemporanea e collezioni museali.
A proposito, possiamo ancora considerare l’Art Brut come espressione outsider o è ufficialmente entrata nel sistema dell’arte e del suo mercato?
Con tutte le sue ambiguità e i problemi etici che può comportare, in questi ultimi anni si è consolidato un mercato internazionale attorno al termine Art Brut. L’Art Brut è diventata un trend, un marchio, su cui ora il mercato sta puntando. Grandi investitori finanziano nell’ombra l’affermarsi di alcune gallerie. A differenza dell’Art Brut degli inizi, legata ai criteri di valutazione dettati da Dubuffet e dai suoi successori diretti come Michel Thévoz, ora è in primis il mercato a decidere su chi incollare l’etichetta di “artista brut”. Il rischio di manipolazioni e gestioni poco trasparenti è alto e sono già molti i casi portati nelle aule di giustizia.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le iniziative che uniscono psichiatria e pratica artistica: qual è la differenza fra l’arte-terapia e l’Art Brut?
L’arte-terapia nasce nel dopoguerra e da allora si è diffusa nel mondo come aiuto indispensabile nel lavoro sul disagio psichico, la riabilitazione socio-sanitaria, l’accompagnamento di persone malate o in fin di vita. La sua pratica prevede la figura di un terapeuta che accompagna e stabilisce con il paziente un percorso da tracciare e costruire assieme. L’obiettivo è il miglioramento dello stato della persona o un suo reinserimento sociale. Questo lo si fa attraverso un monitoraggio che prevede un’evoluzione della forma creata.
L’Art Brut presuppone uno sguardo puramente estetico e non tiene conto dei possibili risvolti d’inclusione sociale o di miglioramento della qualità di vita della persona che si esprime artisticamente (benché conseguenze positive siano inevitabili per chi ci arriva). L’Art Brut s’interessa di raccogliere quelle produzioni artistiche che nascono nell’intimità e nella segretezza del suo autore senza che egli sia sollecitato o stimolato a farlo.
Il futuro dell’Art Brut
Ci sono prospettive di ulteriore evoluzione e crescita?
L’Art Brut continua a suscitare interesse, lo dimostrano due importanti mostre istituzionali in preparazione: la prima si terrà da novembre 2025 a febbraio 2026 nel Grand Palais di Parigi e sarà curata da Jean de Loisy e Bruno Decharme; l’altra avrà luogo nel rinnovato Centre Georges Pompidou una volta finiti i lavori di ristrutturazione.
C’è da augurarsi che in Italia si sviluppi un’attenzione maggiore da parte delle istituzioni pubbliche nel salvaguardare e tutelare il lavoro degli autori dell’Art Brut nostrana. Urge la necessità di creare archivi pubblici nelle diverse regioni per proteggere questo patrimonio ed evitare la dispersione materiale delle opere o la fuga all’estero dei loro creatori.
A Roma hai aperto uno spazio dedicato all’Art Brut. In cosa consiste e a quali esigenze risponde?
SIC12 artstudio risponde alla necessità di creare uno spazio fisico per la conservazione, l’esposizione e lo studio delle opere della collezione che assieme a Fausto Ferraiuolo stiamo costituendo. Questa collezione ha origine ed è influenzata dal nostro lavoro artistico, transdisciplinare e comune. Il mio lavoro di attore, regista e curatore d’arte si intreccia a quello di Fausto Ferraiuolo, pianista e compositore. La collezione si è costituita gradualmente in questi ultimi quindici anni, istintivamente ci siamo concentrati su artisti e opere che rispondono a tre tematiche a noi molto care: il gioco degli specchi e dello sdoppiamento dell’Io; il rapporto tra scrittura e disegno; il corpo come cassaforte della memoria dell’uomo.
L’intenzione, quindi, è quella di creare in Italia uno spazio permanente dedito allo studio e all’esposizione dell’Art Brut e dei dialoghi che si possono creare con l’arte contemporanea. Oltre allo spazio espositivo per mostre e attività collaterali (conferenze, concerti, performance), abbiamo allestito un bookshop dove è possibile acquistare libri e cataloghi sull’Art Brut e argomenti collegati.
Alberto Villa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #73
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