Una restauratrice italiana nella città ferita di Mosul. Intervista ad Alessandra Di Francesco
L’Unesco contribuisce da anni alla rinascita della città antica di Mosul, teatro iracheno di scontri sanguinosi, distrutto dalla furia iconoclasta dei jihadisti. Ne parliamo con l’artista e restauratrice romana che ha partecipato al progetto
È intimo e accogliente lo studio di Alessandra Di Francesco (Roma, 1965) nel quartiere romano Appio Latino. Artista rigorosa e coerente, la sua poetica s’intreccia all’esperienza umana e professionale con Pina Bausch e il Tanztheater di Wuppertal, frequentato alla fine degli Anni Ottanta; ma nella sua vita c’è anche il restauro. Proprio questa sua professionalità l’ha portata a Mosul, in Iraq, all’inizio del 2023, con un incarico dell’Unesco, che nel 2018 ha lanciato l’iniziativa Revive the Spirit of Mosul, incentrata parallelamente sul restauro dei beni storico-architettonici e sul rafforzamento delle istituzioni educative e culturali.
L’antica città di Mosul e il restauro Unesco
L’antichissima città di Mosul, capoluogo del governatorato di Ninive, situata vicino alla confluenza dei fiumi Tigri e Khosr, è tristemente nota per l’occupazione e devastazione da parte dello Stato islamico (ISIS) che la prese in una manciata d’ore nel giugno 2014. Liberata dalle truppe irachene nell’estate 2017, dopo una battaglia estenuante e lunghissima con i bombardamenti americani e la guerriglia urbana, Mosul è ancora oggi una città ferita, soprattutto la parte ovest con le mura ottomane che circondano ciò che resta della città vecchia con il Museo. La furia iconoclasta dei jihadisti che si è abbattuta su Palmira in Siria, distruggendo anche le vicine città assire di Nimrud e Hatra, non ha risparmiato le opere d’arte preislamica custodite a Mosul considerate “offensive” per la religione islamica; in parallelo, il traffico illegale di antichi reperti è servito per l’autofinanziamento del gruppo terroristico. A Mosul, Alessandra Di Francesco ha incontrato il fotografo francese Louis-Cyprien Rials (Parigi, 1981) autore di una serie di fotografie di reportage che inquadrano scorci della città vecchia restituendo la dimensione di una quotidianità in bilico tra passato e futuro.
Intervista ad Alessandra Di Francesco
Cosa ti ha portato in Iraq?
Nel dicembre 2022, quando una collega restauratrice – Livia Alberti – profonda conoscitrice della cultura araba, mi ha parlato del progetto a cui stava lavorando a Mosul, collegato con quello dell’Unesco, mi si è subito accesa una lampadina. Già da qualche anno, dopo la sconfitta del Daesh, la comunità internazionale aveva cominciato a occuparsi della città, stanziando molti soldi per il restauro del nucleo più antico. Ho accettato l’incarico, e sono partita nel febbraio 2023 per rientrare in Italia l’11 aprile.
Qual era esattamente il tuo incarico?
Il mio contratto era di restauratrice e insegnante. Seguivo dodici tra studentesse e studenti intorno ai vent’anni usciti dalla Facoltà di Belle Arti dell’Università di Mosul.
Era la prima volta che ti recavi in Iraq e in generale in Medio Oriente?
Più di trent’anni fa sono stata per un paio di mesi a Riyad per decorare le stanze di un membro della famiglia reale, ma era la prima volta in Iraq. Sono partita da sola. È stato un viaggio “epico”: arrivato a Baghdad, il turista non può andare oltre. L’Iraq, infatti, è un Paese ancora diviso. Appena arrivata nella capitale ho percepito subito di essere, in un certo senso, su un altro pianeta. Dopo lunghe attese sono riuscita ad avere il visto, pagandolo in dollari statunitensi, per recarmi a Mosul che si trova nel Governatorato di Ninive. Avevo il supporto dell’Unesco, malgrado ciò è stata comunque una lunga trafila burocratica. Da Baghdad ho proseguito il viaggio a nord, diretta a Arbil che dista circa 160 km: è l’ultima grande città della regione del Kurdistan e la capitale del Kurdistan Iracheno. L’aeroporto di Mosul è ancora distrutto perciò, da Arbil, occorrono tre ore di viaggio in automobile: dal finestrino ho visto il campo dei profughi che non sono mai riusciti né a rientrare nelle loro città distrutte come Palmira o Mosul, né a superare il confine per il Kurdistan che per loro sarebbe la salvezza. Sono fermi in questo limbo intermedio che fa veramente impressione: chilometri e chilometri di polvere, polvere, polvere… E detriti, macchinari abbandonati, officine in mezzo alla strada. Uno scenario che mi ha ricordato il film La strada. Un’atmosfera desertica apocalittica, da fine del mondo.
Cosa resta di Mosul e come si lavora per recuperarla
Di Mosul, invece, con i suoi 2500 anni di storia e un passato da simbolo dell’identità pluralistica irachena, qual è stata la tua prima impressione?
Arrivata a Mosul mi sono subito chiesta che fine avesse fatto quella città bellissima, una delle più belle al mondo. Edificata dagli Assiri, era stata un crocevia di scambi culturali e commerciali tra il Mediterraneo e l’Estremo Oriente dove vivevano in armonia etnie diverse per identità e religione: musulmani, ebrei, yezidi, cristiani, arabi, curdi, turcomanni, siriaci. A Mosul ho incontrato persone dallo sguardo antichissimo, generose e umili che hanno sofferto moltissimo. Mi hanno portata subito nel cantiere che è una sorta di villaggio all’interno della città vecchia, organizzato come se fosse un cantiere del Cinquecento, con il fabbro, il marmista, l’archeologo… Il tutto a cielo aperto con dei caravan, e tutt’intorno la precarietà.
Il luogo di lavoro era anche quello in cui vivevi?
Alloggiavamo in uno dei palazzi anonimi costruiti a partire dagli Anni Settanta, nella città nuova. Il centro di Mosul è ancora pieno di mine non sminate. Ho potuto vedere ciò che è rimasto di architetture meravigliose, le chiostrine chiuse delle case decorate con affreschi, le venature cristalline dei mattoni d’alabastro. In realtà la parte vecchia non è del tutto disabitata, malgrado il pericolo alcune famiglie vivono ancora lì.
Come sei riuscita a coordinare il lavoro di restauratrice con quello di educatrice?
L’esperienza con le ragazze e i ragazzi è stata fortissima. Comunicavamo in inglese. Erano tutti molto attenti e partecipi, ma mi ha profondamente rattristata che l’insegnamento che gli viene impartito è una “mimesi”, una sorta di pseudo cultura occidentale senza una prospettiva. A grandi linee gli viene insegnato il Rinascimento come l’acme della cultura occidentale, ma lì si fermano.
Mentre dal punto di vista della storia, per loro, l’era di Saddam equivale a Ninive. C’è stata una rimozione assoluta, essendo cresciuti negli anni di Daesh. Mangiavamo insieme, ogni giorno portavano il cibo preparato da loro. Poi uscivamo e tutt’intorno a noi c’erano muri squagliati dal calore delle bombe, curvi come opere di Pop Art. Pareti, soffitti, tetti squagliati; ma si percepiva una voglia incredibile di vivere.
Cosa ti è rimasto più impresso?
Ho visto luoghi bellissimi completamente bombardati, come la chiesa di Al-Tahera, sito del cantiere dove ho lavorato. Mi ha colpito il desiderio di tornare a un’ipotetica normalità, quella sete di riscatto da parte della gente del posto, che però, al contempo, manifesta pochissimo coraggio.
Nelle tue opere pittoriche c’è sempre un approccio viscerale che emerge dalla stratificazione dei colori. L’esperienza di Mosul segna un ulteriore passaggio?
Sono convinta che l’elaborazione di quest’esperienza porterà altro, ma ho bisogno di ancora un po’ di distanza per poterla affrontare anche a livello di progetto artistico. Dopo l’Accademia di Belle Arti, il mio “Big Bang” è stata l’idea del recupero del lacerto, che è legata certamente alla mia esperienza di restauratrice. Nel restauro è il rispetto dell’esistente a dettare il metodo. In funzione di una lacuna si ricostruisce in maniera impersonale soltanto per poter rileggere l’opera. Io ho invertito il processo: la lacuna può diventare una grande presenza, come a Mosul dove quello che manca può diventare un presente.
Manuela De Leonardis
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