“L’arte è trasgressione, ma insegna il rispetto”. Intervista a Paolo Crepet
Recentemente protagonista a Firenze, con le sue Lezioni di sogni condivise sulla Terrazza di Villa Bardini, lo psichiatra e sociologo torinese ragiona sulla genitorialità, la scuola, il rapporto tra le generazioni. Chiamando in causa anche l’arte
Papa Francesco ha definito quanto stiamo vivendo una catastrofe educativa. Ci sono adulti impreparati a gestire giovani come disorientati, privi di punti di riferimento: “I genitori sono costantemente distratti. Infantilizzati, intenti a facilitare senz’ascoltare i loro figli, ai quali bisognerebbe togliere, non certo mettere sempre tutto a disposizione”. Quello che accade in questo periodo storico chiede che almeno venga accesa una luce di confronto. Lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet (Torino, 1951), recentemente protagonista sulla Terrazza di Villa Bardini a Firenze, con l’incontro Lezioni di sogni (lo scorso 31 agosto), condivide il suo punto di vista, non privo di provocazioni, che include anche l’arte.
Intervista a Paolo Crepet
Lei non è una persona a cui piace edulcorare la realtà…
Mi batto per il diritto alla malinconia, alla visione controluce che non altera i colori nella loro intensità, ma porta a un punto di vista non scontato. Il perfezionismo di facciata assomiglia ai palazzi appena restaurati, troppo perfetto. Ricordo lo sguardo “lagunare” che aveva mio nonno, con una grande capacità di intuire, in sé e in altri, veli e sfumature.
Quando si confronta con chi la ascolta, cerca di offrire risposte?
Le persone chiedono di andare in profondità, bisogna cercare con urgenza qualche antidoto contro la pigrizia, l’appiattimento, la banalizzazione. Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi, e dico loro che è tempo di osare, chiedere l’impossibile. Serve la luna, e non si è mai troppo soli per sognare.
E come ce l’andiamo a prendere questa luna?
Con coraggio, ambizione, passione. Bisogna far saltare in aria il tavolo con tutte le carte, stando alla larga dall’accettazione e dalla rassegnazione.
Quali sono i nostri limiti?
Si tende a fare polemica, restando però sempre in superficie. Siamo tutti un po’ razzisti, se vogliamo essere sinceri. Il fatto che ogni tanto venga fuori qualcuno che lo è davvero, per me non è sorprendente. Forse è così per qualche tribuno della cultura italiana che pensa che il nostro sia un Paese democratico.
Quello che dovrebbe essere.
Se lo si guarda bene, c’è da spaventarsi. Non siamo stati per niente pedagogici, non abbiamo insegnato niente a nessuno. Non abbiamo mai voluto investire del tempo spiegando certe cose. Francamente mi chiedo cosa sia cambiato: il mito del progresso è molto più scialbo di come vogliamo dipingerlo.
L’insegnamento dell’arte è la capacità di osare
Quando mancano le idee, la trasgressione si esprime in violenza. Questo accade perché non ha più modo di sfociare in creatività, come poteva accadere un tempo?
Educare resta un compito difficile. Negli ultimi decenni gli adulti non hanno fatto mancare ai loro figli soldi e libertà, nella speranza di renderli socialmente mansueti, ovvero privi di proposte per cambiare il mondo e la sua narrazione. Il risultato, spesso, è un ammiccamento all’idea che la trasgressione possa esprimersi nella violenza anziché in una sensibile creatività. Il vero trasgressivo non è un gradasso, ma un umile, proprio perché convive con molti che ignorano la sua stessa vulnerabilità.
Tutti i grandi artisti sono stati a loro modo dissacratori.
Non perché rovinavano qualcosa col fine di farsi notare, ma perché erano capaci di osare. Come chi ha tagliato una tela chiamandola arte. Non ci poteva essere garanzia di entrare nella storia. Oggi la trasgressione è spesso intesa come atto violento: la rabbia che ogni generazione accumula deve trovare una via, un linguaggio creativo.
La comunità come deve rispondere?
Non necessariamente accettando, o peggio ancora, compatendo un gesto di rottura, ma permettendo a quell’atto di entrare in un progetto, farsi storia sociale. La novità deve sbalordire, non atterrire.
I social hanno colpe?
Rappresentano fisicamente gli otri vuoti che usavano i greci durante gli spettacoli teatrali sotto il palcoscenico, servivano da cassa di risonanza, aiutavano l’attore a farsi sentire. Il contenuto del messaggio, però, è responsabilità della persona o della società, in senso più ampio. I social restano unicamente un mezzo di comunicazione, ed è auspicabile che continuino a esserci.
Come vede la proposta d’inserire l’educazione sentimentale nelle scuole?
Sto cercando di capire quale figura potrebbe effettivamente sedersi in cattedra e insegnare ai ragazzi l’educazione sentimentale. In base a quale percorso, quali presupposti? Mi pare un progetto molto, troppo, ambizioso. Abbiamo capito che c’è un vuoto, è evidente, ma al solito non lo copriamo.
Facciamo l’occhiolino all’indifferenza perché ci conviene?
È un sentimento molto diffuso, permette a ognuno di fare quello che gli pare, perché resiste a prescindere dal contesto. In famiglia si è passati dall’orrenda cultura dell’autoritarismo, che ha contraddistinto e alienato parte delle famiglie fino a non molti anni fa, alla mancanza di autorevolezza, all’amicalizzazione. Il dare troppa libertà non rende certo liberi.
La bellezza, se non salvarci, può insegnarci qualcosa?
Il rispetto, senza dubbio, in un insegnamento continuo. Vale per il David di Michelangelo come per la ragazza stuprata a Palermo, anche lei è un David. Non avrebbero dovuto toccarla.
Ginevra Barbetti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati