Una collezione speciale va in asta a Parigi. Intervista ai coniugi Titze
Il percorso collezionistico di Anne e Wolfgang Titze regala un viaggio nelle traiettorie del Minimal, dell’astrazione e della pittura tedesca del dopoguerra. Il 19 ottobre Christie’s batterà a Parigi alcune delle loro opere, in preparazione alla nascita della Titze Foundation
Tra le attese aste parigine di ottobre arriva anche una vendita speciale, dedicata alla collezione dei coniugi Titze. Love Stories from the collection of Anne & Wolfgang Titze è la single-owner sale che Christie’s terrà a Parigi il 19 ottobre, con un catalogo di 39 lotti che è in grado di restituire “il ritratto di una coppia, le loro scelte e le loro sensibilità”. In omaggio a un percorso collezionistico decennale e rigoroso, nelle traiettorie del Minimal, dell’astrazione e della pittura tedesca post-war, che è sempre stato essenzialmente una costante dichiarazione d’amore all’arte e agli artisti.
Abbiamo intervistato in esclusiva i collezionisti Anne e Wolfgang Titze per scoprire tutto.
Intervista ad Anne e Wolfgang Titze
Quando e come avete iniziato a comprare opere d’arte?
Da cittadino austriaco è stato naturale per me iniziare dagli artisti austriaci, Hermann Nitsch o Arnulf Rainer, ma più per esigenze decorative che per un’idea di collezionare. Tutto è cambiato rapidamente nel 1995, quando mia moglie e io abbiamo incontrato due personalità del mondo dell’arte. La gallerista francese Liliane Vincy, che ci ha aperto gli occhi su Arte povera, Nouveau Réalisme, Gruppo Zero. E poi lo scultore Bernar Venet, che invece ci ha portati alla Minimal Art in America. Senza di lui non saremmo mai diventati i collezionisti quasi ossessivi che siamo di questo movimento.
In questi inizi, cosa cercavate, da un punto di vista intellettuale ed emotivo, e cosa vi attraeva tanto da entrare in collezione?
Di queste ricerche Anni ’60 che menzionavo, su tutto, ci affascinò l’allontanamento dall’oggetto-dipinto. Ci colpì il radicalismo intellettuale e iniziammo a imparare e imparare, leggendo, visitando musei e ancora di più gli artisti nei loro studi, per ascoltare la loro versione sull’arte del futuro. Venet diceva sempre: “Se un artista non aggiunge niente di nuovo all’arte dovrebbe smettere di produrre”.
Un imprinting d’artista anche, il vostro.
Sì, e poi questa affinità istantanea per pratiche concettuali fu anche fortemente motivata dalla nostra passione per la musica contemporanea, che percorreva strade analogamente radicali negli stessi anni e penso a John Cage negli Stati Uniti o a Karlheinz Stockhausen in Germania, tra gli altri, con la libertà totale della composizione. Totalmente in linea con quanto diceva anche Yves Klein negli Anni ’50: “L’arte è completa libertà. Non appena la si ingabbia, la libertà è a rischio e la vita diventa una prigione”.
C’è un’opera che rimpiangete di non aver comprato?
Durante uno dei nostri viaggi a New York negli Anni ’90 per comprare Agnes Martin, Donald Judd, Sol LeWitt, fummo invitati a casa di un gallerista e cosa vedemmo a una parete? Una grande tela nera e rossa di Mark Rothko. Non dimenticheremo mai lo shock emozionale davanti a quell’opera. In modo piuttosto inaspettato ci fu proposto di acquistarla e passammo tre notti a rifletterci senza chiudere, per poi decidere di no. Eravamo troppo concentrati sul Minimal in quel momento. Ma col senno di poi, che errore!
Il collezionismo secondo i coniugi Titze
Quali le criticità e i punti di forza di una collezione “di coppia”?
Dall’inizio la nostra collezione è stata un lavoro condiviso, anche se abbiamo una provenienza geografica diversa, così come differenti sono gli ambienti in cui siamo cresciuti. Mia moglie lavorava come produttrice televisiva per ’60 Minutes’ sulla CBS News negli Stati Uniti. Io come economista e poi responsabile di divisioni strategiche. Non è stato sempre facile, ma non abbiamo mai comprato un’opera su cui non fossimo entrambi d’accordo.
Questo è il motivo per cui abbiamo voluto intitolare la grande mostra del Belvedere a Vienna Love Story. E ora insieme a Christie’s abbiamo tenuto lo stesso titolo anche per la vendita, ma al plurale, Love Stories, per restituire i tanti “innamoramenti” in trent’anni di percorso, e su tutti quelli per i nostri artisti.
Ecco, quella mostra al Belvedere fu la prima occasione in cui avete deciso di mostrare al pubblico la vostra collezione, rimasta fino ad allora privata.
Sì, in passato avevamo sempre rifiutato le richieste di esporla, principalmente perché non ci interessava tutta quell’attenzione. E poi eravamo sempre presi da prestiti a molti musei nel mondo, dal MoMA al Pompidou, alla Tate Modern, alla Fondazione Beyeler. E quello ci assorbiva molto sia da un punto di vista logistico che curatoriale.
Poi però avete cambiato idea.
Sì, e nel 2014 ci è arrivata l’offerta dal Belvedere Museum di Vienna che è stata irresistibile. Avevano appena aggiunto Il Palazzo d’Inverno del Principe Eugenio come ulteriore sede espositiva, e chiunque abbia visto almeno una volta quegli spazi barocchi assolutamente unici può capirci! Con un altro spazio, sempre del Belvedere, siamo così riusciti a mostrare 200 opere di 100 artisti.
Come immaginate il futuro della vostra collezione?
Proprio dalla mostra del Belvedere abbiamo iniziato a ragionare su come proteggere il futuro della nostra collezione, su come esserci certi che possa vivere per sempre.
Dal collezionismo alla Titze Foundation
In quest’ottica avete messo in cantiere il progetto di una fondazione dedicata.
Sì, è diventato evidente che serve creare un’entità giuridica che possa gestirla nel tempo e la futura Titze Foundation è la soluzione migliore. Ma mantenendo sempre aperta la strada della collaborazione con musei e altre istituzioni, sia per donazioni che per prestiti di lungo termine, così come per le nostre attività di sponsorizzazione già in essere in favore di giovani artisti e musicisti.
Anche l’asta di Christie’s è pensata in questa prospettiva?
Sì, perché servirà a costruire una dotazione per la Fondazione attraverso un catalogo di 39 opere di grande qualità e valore storico-artistico, capaci di riflettere gli standard dell’intera collezione. Questa vendita è un ponte tra la prima mostra al Belvedere e la proiezione nel futuro della collezione stessa.
Quale è per voi il ruolo e la responsabilità dei collezionisti oggi?
Mi lasci dire cosa fa per me un vero collezionista. Colleziona a partire da una strategia precisa sulla collezione, non aggiunge pezzi senza un contesto di riferimento. Lo fa con l’obiettivo di creare un messaggio unico attraverso la collezione. E riguardo a questo la collezione è per me un’opera d’arte in sé. Quando un collezionista vende le opere, lo fa non per realizzare profitti, ma per riorganizzare e ristrutturare la collezione. Anche perché è impegnato costantemente a reinterrogare l’attualità e l’evoluzione della collezione, come parte di un contesto più ampio che è soggetto a cambiamenti.
Un processo che prosegue nel tempo, anche.
In continuo sviluppo sì, e che richiede ricerca e riflessione, e che va governato con grande cura. E poi una collezione per essere tale, per noi, non è quella chiusa in un deposito, ma al pari della musica deve essere accessibile al pubblico il più possibile.
Come si può realizzare questo?
Con le mostre, con la disponibilità a prestare opere ai musei, anche, quando possibile, provando a evidenziare l’identità globale della collezione da cui arrivano. L’arte è parte essenziale delle nostre culture, anche in connessione con i cambiamenti sociali e tecnologici. E un collezionista deve impegnarsi a essere parte di quelle evoluzioni, o contribuendo alle infrastrutture già esistenti o creandone di nuove anche. Per rendere l’arte visibile e mantenerla tale nel tempo, “per il bene del mondo”, per dirla con uno slogan! È un privilegio e uno dei doveri di un collezionista perseguire un obiettivo così sfidante.
Com’è cambiato il sistema dell’arte
Come vi pare sia cambiato il sistema dell’arte dagli Anni ’90 a oggi?
Quando abbiamo iniziato ci siamo detti che eravamo tra quelle 200 persone, 300 forse, che collezionavano arte in quel momento. Poi il mercato è esploso in modo vistoso e oggi ci saranno quanti? 200mila compratori? Qualcosa del genere.
E come se lo spiega?
La ragione principale è finanziaria. Rispetto ad altri investimenti, negli ultimi trent’anni il mercato dell’arte ha mostrato una straordinaria capacità di creare valore. Ed ecco perché la maggior parte dei compratori oggi sono da considerarsi investitori, più che collezionisti.
Che conseguenze ha questo tipo di scenario su chi resta interessato a collezionare l’arte, più che a investire nell’arte?
Con consapevolezza bisogna continuare a perseguire la propria strategia con continui adattamenti. In risposta ai tanti buyer in Oriente, agli investimenti miliardari dal Medio Oriente o all’arrivo sulla scena di giovanissimi nuovi miliardari.
Cosa vi affascina ancora e oggi dell’arte contemporanea?
Il mondo diventa sempre più complesso, giorno dopo giorno. E la scena artistica riflette questa complessità, soprattutto dal punto di vista dei cambiamenti sociali o tecnologici, con il mondo NFT, 3D e delle intelligenze artificiali, con l’impatto dei social network. Ogni cosa influenza i messaggi artistici, mentre allo stesso tempo l’arte riesce a dar voce a tutte le minoranze. Tutto questo ha per noi un grande interesse, ma va osservato con consapevolezza, per tenere la barra dritta sulle scelte degli artisti e delle opere in una tempesta così affascinante.
E questo modifica il vostro collezionare?
Oggi questo scenario ci tiene curiosi, in allerta e in piena attività collezionistica. Però usiamo ancora e sempre la nostra vecchia regola: quando sei di fronte a un’opera deve toccarti. Cuore e cervello: sono quelli a guidare le nostre scelte. E poi continuiamo anche a farci ispirare da un famoso consiglio di Frank Stella: “You see what you see”. Poi solo il futuro potrà dire.
Cristina Masturzo
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