“Il futuro? Non mi compete”. Intervista all’artista Flavio Favelli
Si nutre del passato, non è interessato al domani ma alla forza creativa della memoria: l’artista Flavio Favelli racconta i suoi fantasmi a Futuro Antico
Nelle opere di Flavio Favelli (Firenze, 1967; vive a Savigno in provincia di Bologna), oggetti di uso quotidiano diventano i protagonisti di installazioni, sculture, collages. Ha esposto in spazi pubblici e privati in Italia e all’estero, tra cui i musei: MACRO e MAXXI di Roma, MAMbo di Bologna, Museo Marino Marini di Firenze, Palazzo Riso di Palermo, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, Maison Rouge – Fondation Antoine de Galbert di Parigi, Projectspace 176, Londra.
Intervista a Flavio Favelli
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte ?
Credo di riportare tutto al mio passato, assumo le situazioni e i meccanismi familiari e sociali che ho vissuto come una specie di modello, in quanto riferimento sempre valido e incrollabile: tratti psicologici, il potere, il riconoscimento. Nel 1997 andai in Libia per solidarietà al popolo libico contro l’embargo. A Tripoli, al bancone del bar di un grande albergo, faceva da sfondo una grande parete di aranciate. Incontrai un uomo d’affari italiano, che improvvisamente mi disse: “Sa da cosa è mosso il mondo? Da due cose: dai soldi e dalla figa”. Chissà se aveva ragione. Il mondo è vecchio come il mondo, come del resto le due cose che ci accompagnano da sempre: l’arte e la guerra. E queste le ho vissute da sempre nella mia famiglia. Per me che sono nato da una madre che amava l’arte – o credeva di amarla – per il fatto che la poteva liberare dalla guerra in famiglia, è stata una bella storia, non priva di scossoni. Nel Belpaese il passato non passa mai, i fantasmi aleggiano e i sogni sono desideri. In fondo cerco di rifare la mia storia, ma rifacendola ne faccio una nuova. Il destino mi ha fatto crescere in una famiglia borghese fallita, fra Firenze e Bologna, dove, fra gli anni Settanta e Ottanta, si è giocata una partita mai conclusa. Mia madre cucinava recitando Goethe in tedesco, imprecava contro Franco Basaglia che aveva messo fuori mio padre, poeta, e mi portava in giro per i musei di mezzo mondo. Mio nonno, uomo bellissimo, anticomunista, tornato vivo dalla campagna di Russia, amava la casa piena di antiquariato e arte. Per vomitare bisogna fare prima indigestione.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più ? Puoi raccontarci la sua genesi?
L’opera che non ho fatto, ma che esiste come progetto: anni fa scrissi alla soprintendente di Palazzo Venezia, Edith Gabrielli, ma mi rispose che la mia idea non rientrava nel programma del museo. Ma Palazzo Venezia è sempre vuoto, non ci sono mostre e non c’è un programma. Il progetto consisteva nell’esporre, nei grandi saloni del Concistoro e della Sala Regia, degli specchi graffiati, opere a cui lavoro da tempo, così che riflettessero, in modo non proprio ortodosso, l’ambiente attorno. E poi avrei sostituito le tre tende della Sala del Mappamondo, con stoffe di altre tende trovate che ho raccolto, per segnare e rinnovare, in qualche modo, uno spazio irrisolvibile che può essere, credo, considerato solo dall’arte. Tre saloni che rappresentano il potere in una lunga fase storica mai conclusa.
Ho scritto anche al Ministro Gennaro Sangiuliano, ponendogli la questione e perorando la mia causa, chiedendogli se si può, con l’arte, evocare il passato del Paese. Ma non mi ha mai risposto.
Che importanza ha per te il Genius Loci all’interno del tuo lavoro?
Firenze e Bologna sono mondi vicini, meno di 40 minuti in treno, ma lontanissimi. Oscillare fra queste due identità complesse e assunte a modello è un privilegio, ma per poi andare a vivere sull’Appennino, per andarsene.
Un po’ come per la politica, direi: sfuggire la sinistra, irridere la destra. Non parlerei di lavoro, è troppo invischiato a termini come dovere, virtù e salario. L’artista italiano nasce già con troppi pesi sulle spalle e con questi innesca una grande sfida. Il Loci è una faccenda complessa, il passato preme e ti porta via.
I concetti di passato, futuro e sacro secondo Flavio Favelli
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico?
Direi che non c’è il passato e non c’è il futuro, ci sono le cose, ci sono le immagini, le presenze, i ricordi, le paure e le speranze che ci muovono come burattini. Non dico nemmeno le persone, perché anche loro sono cose, immagini, presenze, ricordi, paure e speranze. C’è solo il presente, spesso imprendibile, e non basta mai, ma è anche dolce e commovente.
Quali consigli daresti ad un giovane che voglia intraprendere la vostra strada?
Non ho figli proprio per non dovere parlare ai giovani e non insegno apposta. Non ne ho voglia, è tutto molto pesante.
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
È un termine che si tira dietro troppe cose, forse converrebbe lasciarlo stare; e poi abbiamo fatto tanta fatica per desacralizzare tutto! In Italia è un concetto troppo intrecciato con la Chiesa e il cattolicesimo.
Sono comunque questioni personali, private, è una parola che è meglio evitare, troppo pericolosa da maneggiare, troppo invischiata in certe faccende. Ultimamente qualcuno ci prova ancora a parlare di arte sacra, e poi c’è anche la Chiesa che vorrebbe collaborare. Ma l’arte è anche sacra e se qualcuno vuole distinguere l’arte da quella sacra, è meglio che vada a lavorare per la Chiesa, dove, è bene ricordare, l’immagine religiosa è destinata al rito. C’è sempre qualche critico e qualche artista col senso di colpa che rompe le scatole, ma sarebbe meglio lasciare stare; come diceva Mario Perniola, è meglio che l’arte rimanga nel vaso di Pandora.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Il futuro non mi compete, non ne so nulla e credo proprio di non pensarci, se non per onorare impegni che ho preso qualche mese più in là. Non avere fatto figli è già una bella risposta. Fra qualche mese andrò ad abitare in un mio progetto di casa a Montepastore sull’Appennino Bolognese. Prendo, in ritardo, quello che mi dà la tecnologia, che so, Whatsapp o i pannelli fotovoltaici, ma farò anche un laghetto per serbare acqua, si dice che verrà la grande siccità, ma anche per farci galleggiare una zattera che naufraga. Forse sono stato troppo condizionato da una storiella di mia nonna, donna demoniaca, anzi una storiaccia che mi raccontava sempre: quella della donnina della ricottina, una poveraccia che pensava di fare una fortuna con una ricotta, ma poi, mentre tentava di salutare i passanti dalla finestra della sua nuova futura casa, la sola ricotta che aveva cadde nel fango. Nel 2022, nel mondo, la spesa in armi è aumentata del 3,7% rispetto all’anno precedente, vediamo che succederà negli anni futuri.
Ludovico Pratesi
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