Michele Achille: lo stilista (quasi) architetto pugliese che valorizza l’artigianato locale
Vive tra Bari, Roma e Cina. Poi ritorna in Puglia per dedicarsi alla moda lenta e pensata. Oggi ha un suo marchio di successo. Che in tanti ancora devono conoscere
Capi di altissima qualità, realizzati in Italia da artigiani esperti per incontrare le esigenze di un mercato di nicchia attento al valore più che alle tendenze. È questo il DNA del prodotto di Michele Achille, fashion designer pugliese che dopo aver lavorato diversi anni all’estero ha scelto di tornare a casa per dar vita a un brand d’eccellenza.
Come e quando la moda è entrata nella tua vita?
C’è sempre stata. Mio padre era un sarto da uomo e passavo il mio tempo libero a guardarlo lavorare. Adoravo seguire quelle mani esperte che tagliavano, imbastivano e cucivano. Per me seguire quell’atto creativo era come assistere a una magia che si materializzava sui manichini sartoriali pieni di spilli. I miei genitori in realtà non volevano che frequentassi scuole di moda, così mi sono iscritto alla facoltà di Architettura a Roma (per 5 esami non mi sono laureato) ma di nascosto frequentavo anche i corsi all’Accademia di Moda e Costume. Le cose sono cambiate quando mio padre ha deciso di fare il grande salto nell’imprenditoria; a quel punto il mio supporto è stato fondamentale
Come hai iniziato a lavorare nel settore?
Durante i miei studi romani ho avuto l’opportunità di diventare l’assistente di un sarto e stilista da uomo molto affermato negli anni ‘80, Osvaldo Testa. Sono stati anni impegnativi ma felici. Studiavo e contemporaneamente lavoravo imparando moltissimo. Mentre tutti i miei amici di Accademia aspiravano a entrare negli atelier romani di Balestra, Lancetti o Capucci, io mi specializzavo nella moda maschile. Il signor Testa mi ripeteva spesso sorridendo e lusingandomi che prima di me era stato suo assistente Giorgio Armani.
Cosa ti ha insegnato?
Tutto ciò che ho appreso da lui l’ho messo a disposizione della mia famiglia, che aveva creato un’azienda di abbigliamento da uomo. Avrei potuto scegliere di lasciare Roma per Milano, che in quegli anni si era imposta al mondo come capitale della moda, ma ho deciso di tornare a Bari per occuparmi dell’azienda di famiglia che si era costituita. Avevo capito che probabilmente avrei vissuto lontano dai clamori della moda ma che di contro avrei avuto un’esperienza più diretta e completa di questo settore. Infatti, in azienda non curavo solo la parte stilistica e creativa ma anche la catena produttiva; mi occupavo dei mercati esteri e delle fiere internazionali del settore, incontravo clienti e viaggiavo moltissimo. Dopo questa esperienza ventennale ho deciso di affrontare una nuova sfida: la Cina.
Proprio in Cina hai lavorato diversi anni, curando le linee d’abbigliamento di importanti brand. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Ricordo con grande piacere questo periodo della mia vita che è durato 7 anni, in cui ho vissuto di base a Pechino ma ho visitato tutta la Cina e altri paesi asiatici quali il Giappone e la Korea. Questi viaggi mi hanno dato modo di conoscere la loro cultura, la loro storia e quindi la loro mentalità. Da un punto di vista umano questa esperienza mi ha insegnato a superare i pregiudizi e capire che bisogna affrontare ciò che è diverso da noi con umiltà e apertura. Dal punto di vista professionale invece è stato fondamentale per la mia formazione. Per prima cosa ho imparato a conoscere il mercato cinese e orientale, che è molto diverso da quello europeo; ma sono anche venuto a contatto con incredibili realtà produttive, modernissime e all’avanguardia. Sembrerebbe un paradosso ma in Cina ho affinato la mia attenzione alla qualità. I cinesi sono molto attenti al prodotto e ci sono aziende che hanno standard produttivi altissimi.
Quando e perché hai deciso di dar vita a un tuo brand?
Ho deciso di dare vita al mio brand al mio ritorno definitivo in Italia. Arrivavo da un Paese in cui tutto era in evoluzione e mi sono trovato in una realtà statica dove avvertivo stanchezza e sfiducia da parte degli operatori del settore, demoralizzati dalla pandemia. Il mio ritorno è coinciso quindi con il grande periodo di lockdown per cui ho deciso di impiegare questo tempo dedicandomi allo studio dei programmi di grafica e design digitale, che mi hanno sempre affascinato ma che non avevo mai avuto il tempo di imparare.
E poi che cosa è successo?
Dovermi concentrare sull’uso di questi strumenti ha liberato la mia vena creativa senza i condizionamenti che fino ad allora avevano segnato il mio percorso professionale. Ho realizzato che era il momento di far emergere il mio personale concetto di moda come punto di arrivo della mia carriera, che fino ad allora era stata messa a disposizione di altri. Pur lavorando nella moda non sono mai stato personalmente condizionato dalle tendenze e dai clichés; questo emerge da ciò che faccio, che non chiamo collezione ma “lista dei desideri”, capi che vorrei indossare o cose che mi sarebbe sempre piaciuto avere nel mio armadio.
Qual è il carattere del tuo prodotto?
I miei sono capi di qualità prodotti artigianalmente, dalle linee semplici ma impeccabili nelle vestibilità e interpretati con tessuti esclusivi e pregiati su cui sono applicate stampe che li rendono unici e destinati a durare nel tempo. Capi che non seguono tendenze passeggere ma riflettono la mia personale onda creativa. Ho scelto di proposito di produrre pochi pezzi poiché vorrei che rimanessero esclusivi, e chi li acquista deve averne consapevolezza. L’esclusività è data anche dal fatto che ogni modello è declinato in un unico tessuto e colore. Se potessi, mi piacerebbe spiegare personalmente a chi acquista un mio capo la sua storia, spiegare perché ho ideato quel tipo di stampa, raccontare la dedizione di chi lo ha tagliato facendo coincidere perfettamente tutte le stampe per ottenere un unico pattern e descrivere le varie fasi produttive che l’artigiano ha impiegato per confezionarlo.
Perché?
È questo che davvero renderebbe l’acquisto non solo sostenibile ma anche consapevole. Mi piace pensare ai miei cappotti stampati come pezzi unici di design e per essere tali la qualità dei tessuti, l’esclusività delle stampe, la confezione artigianale e la produzione limitata sono elementi fondamentali.
Dove e come vengono realizzati i tuoi capi?
I miei capi sono tutti realizzati in uno dei posti più belli della mia terra: la Valle d’Itria, in Puglia. Mi avvalgo esclusivamente di piccoli laboratori a conduzione familiare che hanno conservato una tradizione sartoriale, e questa scelta mi riporta indietro alle mie origini.
In un mercato ormai saturo, dominato dalle logiche dei big brand e del fast fashion, il tuo è un lavoro fuori dal coro, una moda bella e ben fatta che punta sulla qualità. Quali sono i pro di questa filosofia?
Probabilmente dovrei ammettere di aver sbagliato se dovessi pensare di combattere contro i big brand o competere con il fast fashion, ma quando guardo il risultato del mio lavoro sono incoraggiato a credere fortemente che esiste una piccola fetta di clientela che come me cerca una moda al di là delle tendenze e che sia alla ricerca non solo di contenuti stilistici, ma anche del “ben fatto”. Ho la piena consapevolezza che questo richiede tempo, e questo tempo si scontra con le logiche sia dei big brand, con le loro numerose collezioni annuali, sia delle super offerte del fast fashion. Posso dire che portare avanti una filosofia che tenga innanzitutto conto della qualità e dell’artigianalità del prodotto rende il lavoro interessante e appassionato; e il consumatore attento lo recepisce. Per me questo, oltre ad essere fonte di grande soddisfazione, è un grande “pro” della mia filosofia.
Invece quali sono i contro?
Di “contro” il tempo e gli investimenti finanziari nella comunicazione, che un brand indipendente come il mio richiede per affermarsi anche in una nicchia di mercato, costituiscono senza dubbio un grande limite, specie se non si è supportati a volte da chi parla di moda, da chi intercetta nuovi fashion designer e dalle stesse istituzioni. Sussurrare è più difficile che urlare, ma io preferisco raccontare me stesso a bassa voce e aspettare che ciò che faccio parli per me più che di me.
Valeria Oppenheimer
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