L’arte contemporanea israeliana in mostra in Puglia per favorire il dialogo di pace
Ha preceduto di pochi giorni l’inizio della guerra l’inaugurazione del progetto itinerante Shades of Israel che consolida il ponte culturale tra Italia e Israele, attraverso l’arte di 12 protagonisti della scena contemporanea
Quando la raggiungiamo al telefono, Fiammetta Martegani (Milano, 1981; dal 2009 stabilmente in Israele), è rifugiata nel bunker sotto la sua abitazione, a Tel Aviv. Negli ultimi giorni, lei, che è anche corrispondente per l’Avvenire, racconta l’escalation di violenza della guerra – l’ennesima, la più drammatica degli ultimi decenni – che oppone lo Stato di Israele ai miliziani di Hamas. Un evento maturato nello scenario geopolitico del conflitto israelo-palestinese che ha attraversato il XX secolo e continua a non trovare soluzione nel XXI, aggravato dai complessi equilibri dell’area araba e mediorientale, e favorito, in queste apocalittiche e inattese proporzioni, dalle “disattenzioni” del governo Netanyhau, che da quasi un anno ha ingaggiato un braccio di ferro estenuante con i suoi concittadini, portando avanti una riforma della giustizia considerata iniqua, aizzando il dissenso interno e indebolendo lo Stato. Difficile accantonare, anche solo per pochi minuti, quel che c’è fuori, oltre la protezione del bunker; ma con Fiammetta Martegani, curatrice del Museo Ertz Israel, vogliamo parlare di come “l’arte possa essere veicolo di pace”.
Il progetto Shades of Israel come ponte culturale
Proprio all’inizio di ottobre, pochi giorni prima che scoppiasse la guerra, la Puglia ha avviato la terza edizione del progetto Shades of Israel, iniziativa che vede collaborare la Regione – attraverso Pugliapromozione e il Museo Ebraico di Lecce – con Israele per consolidare il ponte culturale, commerciale e turistico con l’Italia. La manifestazione si propone quest’anno come percorso itinerante di arte israeliana contemporanea, tra le città di Lecce, Trani e Polignano, dove ad aprire le porte sono, rispettivamente, il Museo Ebraico nato all’interno della riscoperta, antica sinagoga del capoluogo salentino, il Castello Svevo e la Fondazione Pino Pascali. Tre mostre, a cura di Martegani, che espongono i lavori di dodici artisti dal profilo diverso – “ebrei, arabi, cristiani”, sottolinea Fiammetta ad avvalorare l’importanza del confronto tra religioni e culture, con le personali di Tsibi Geva (Ein Shemer, 1951) e Maria Saleh (Um El Fahem, 1990) e la collettiva di dieci emergenti – suggerendo una riflessione che alla luce del contesto attuale ha un che di profetico. Se non fosse che non di doti divinatorie dispongono gli artisti israeliani coinvolti, ma più semplicemente di una sensibilità spiccata nel restituire il clima respirato nel Paese negli ultimi mesi, anni. Inaugurate in concomitanza con la settimana di Sukkot – la Festività ebraica delle Capanne, che ribadisce il valore dell’amicizia e della solidarietà – le mostre pugliesi si protrarranno per buona parte del 2024.
My ]Alt]neuland è il titolo della collettiva leccese di dieci artisti israeliani emergenti rappresentanti le diverse voci, religioni e identità di Israele, che si esprimono attraverso diversi mezzi, dalla videoarte allo stencil, all’inchiostro giapponese, riflettendo sull’utopia di Theodor Herzl. Di cosa parliamo?
Ognuno di loro è presente con una singola opera, considerando le dimensioni ridotte della sinagoga di Lecce, che diventa contesto site-specific di grande suggestione. Il filo conduttore delle tre mostre è la riflessione sulla guerra, in senso universale. A Lecce siamo partiti dal testo di Herzl, pubblicato nel 1902, che dà il titolo alla collettiva: si tratta di una teorizzazione illuminata sulla democrazia, fondata sul principio di assoluta tolleranza, che darà il là alla costituzione dello Stato Israele, nato nel 1948, in parte disattendendo le premesse utopiche dell’autore. Ecco, agli artisti ho chiesto di interpretare Herzl in funzione di cos’è Israele oggi: c’è chi ha cavalcato l’utopia, altri invece hanno lavorato in maniera distopica. A qualche giorno di distanza dall’inaugurazione è impressionante rilevare il carattere profetico di certe rappresentazioni.
Alla Fondazione Pino Pascali di Polignano, invece, protagonista unico è Tsibi Geva, con la personale Terra Infirma.
Si tratta del più grande artista israeliano vivente, nel 2015 ha rappresentato il suo Paese alla Biennale di Venezia, espone in tutto il mondo, ha una lunga carriera alle spalle, ed è stato fortemente influenzato dall’Arte Povera, motivo per cui abbiamo scelto la Fondazione Pascali. Si presenta con una riflessione su luoghi e identità, appartenenza ed esclusione, fondando la rappresentazione di una geografia infirma – di pratiche e sentimenti – sulla sua ossessione per l’osservazione e per la comprensione della struttura delle cose.
Quello di Geva è un vissuto – un profilo – molto diverso dalla protagonista della mostra che chiude il cerchio, a Trani: Maria Saleh.
Esatto, e non è un dato casuale. A un artista uomo, adulto e di lunga esperienza, di cultura ebraica – che peraltro si è sempre speso moltissimo nel denunciare la questione del popolo palestinese, dedicando la sua vita al dialogo e alla collaborazione con artisti arabi – abbiamo associato un’artista donna della nuova generazione, araba da parte di padre, di madre ucraina cristiana. Per lei parla innanzitutto il talento, nel 2023 è stata premiata come miglior artista israeliana dell’anno dal Museo d’Arte di Tel Aviv; ma conta anche il vissuto.
Che emerge potentemente al Castello Svevo di Trani, dove per i prossimi sei mesi sarà esposta l’opera Ludmila. Di che si tratta?
Ci troviamo di fronte a un’opera unica di grandi dimensioni, un “murale” su tela a carboncino, di 11 metri per 4. Solo uno spazio come il Castello Svevo, che la Regione ha prontamente messo a disposizione, ci è sembrato adatto a “contenerlo”. L’allestimento è dunque molto scenografico, il tema è ancora una volta quello della guerra, letto in chiave universale: l’impatto visivo è stato paragonato da più di qualcuno a quello di Guernica, di Picasso. Ludmila è il nome della madre di Maria, originaria di Kiev, e l’opera ritrae il suo primo incontro con la città di Um El Fahem, una delle più grandi città arabe in Israele. Si tratta, quindi, anche di un lavoro sulla maternità, caricato delle ansie legate allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina.
Il tema del dialogo e del ponte tra culture è dunque ricorrente nelle opere esposte, e si riflette nelle biografie degli artisti. Fattivamente un’operazione come Shades of Israel come può favorirlo?
Basti pensare alle residenze che hanno portato diversi degli artisti coinvolti in Puglia, per preparare le mostre. L’unico modo per portare la pace in Israele è far capire al mondo cosa succede realmente in questo territorio. In piccolo l’interscambio con la Puglia, con le persone e le istituzioni che hanno aperto la porta agli artisti, aiuta questo processo di reciproca conoscenza, maturato in un contesto di grande solidarietà.
E in Israele, dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, la comunità artistica si è già fatta sentire?
Israele è una terra che riunisce da sempre grandi intellettuali, che hanno permesso al Paese di sopravvivere. Dunque un movimento culturale molto attento si è sempre manifestato con costanza. Oggi i social network ci aiutano a recepire più velocemente certi messaggi: anche dal mio bunker, pur nella difficoltà di comunicare, ho già intercettato i lavori – postati online – realizzati da un paio di artisti coinvolti nella collettiva di Lecce, come reazione alla guerra.
Livia Montagnoli
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