“Io non medito, dipingo”. Intervista all’artista Anna Paparatti, La Pitturessa

Una conversazione con l’artista che si è formata in accademia con Toti Scialoja, è tra i personaggi dell’ambiente artistico romano degli anni Sessanta e Settanta, ha collaborato con Dior, ed è protagonista del documentario La Pitturessa, di Fabiana Sargentini

Ci incontriamo a casa sua sul Lungotevere, Anna Paparatti (Reggio Calabria, 1936) mi ha generosamente accolta per quasi quattro ore. Paparatti è un’artista, nata a Reggio Calabria, protagonista degli eroici anni Sessanta e Settanta romani, vissuti fianco a fianco con Fabio Sargentini, Pino Pascali e i grandi protagonisti nazionali e internazionali che ruotano attorno alla galleria L’Attico. L’intervista è parte integrante di un lavoro di ricerca propedeutico alla mia tesi di laurea per il biennio in Visual Cultures e pratiche curatoriali, con Lorenzo Madaro, all’Accademia di Belle Arti di Brera. Come nel suo libro Arte-Vita a Roma negli anni ’60 e ‘70. la Pitturessa [a cura di Guglielmo Gigliotti, De Luca Editori d’Arte, 2015 ndr], Paparatti è stata molto diretta e l’intervista si è rivelata un vero e proprio flusso di coscienza: dalla percezione del sé, l’importanza salvifica della pittura fino alla storia dell’Attico, che è poi storia dell’arte. Il 24 ottobre 2023 viene proiettato in anteprima, nella Sala Cinecittà a Roma, il documentario La Pitturessa, di Fabiana Sargentini, in cui racconta la figura di Paparatti come artista e madre della regista. 
Mi suggerisce l’artista: “Quando avevo 15 anni ho scoperto la pittura, è quella che mi ha salvato veramente la vita”.

Perché dici che ti ha salvato la vita?
Perché stavo malissimo in famiglia, tre fratelli tra l’altro dopo di me. Sono nata a Reggio Calabria, quindi ti puoi immaginare l’accoglienza veramente poco… [si riferisce al fatto di essere la primogenita, ndr]. Mio padre mi amava ma non poteva tanto dimostrarmelo perché mia madre si opponeva. Ho avuto sempre rapporti buoni con gli uomini e cattivi con le donne. Non ho mai avuto un’amica, tranne Maria Pioppi quando eravamo giovani. Io ero rimasta a Roma a studiare e i miei genitori erano tornati in Calabria, mio padre per lavoro a Reggio. Poi io ci andavo sempre naturalmente l’estate, a Pasqua… sempre.

Parliamo delle tue opere.
Mh, è difficile per me.

Vorrei ripercorrere il percorso temporale: inizi con i Giochi negli anni Sessanta.
Prima c’è tutto il lavoro dell’Istituto d’arte, che è un lavoro di ricerca. Ho fatto tantissimo e ho distrutto tantissimo, perché non mi piaceva, era troppo scolastico. Non erano copie, ma miei quadri e disegni. Prima ero fissata con Mirò, allora facevo anche dei piccoli dripping. Poi Picasso naturalmente faceva delle cose che non c’entravano niente con me. Però ho fatto tanto, io disegnavo e facevo continuamente. Quando ho fatto l’Istituto d’arte ho avuto immediatamente la scoperta dell’arte moderna – contemporanea anzi – e quindi mi ero buttata, facevo queste cose in un modo inconsapevole, molto istintivo. Ancora non conoscevo tutta la storia dell’arte, poi quando cominci a capire i grandi artisti chi sono e tu che verme che sei rispetto a loro… lì è cominciata questa fase di ricerca. Facevo tanto, disegni e quadri, e poi buttavo tutto, tranne pochissime cose.

Nel tuo libro Arte-Vita a Roma negli anni ’60 e ‘70. la pitturessa racconti un episodio molto divertente con Giorgio De Chirico, che per te era un maestro passatista.
Eh certo! È questo, per me era quello il problema. Parlava malissimo dell’arte contemporanea pubblicamente e io ero arrabbiata. Ero allieva di Toti Scialoja, capito? Scialoja all’Accademia veramente mi aveva aperto un mondo di cultura. Io gli sono gratissima perché veramente è stato bellissimo incontrare lui. Giorgio De Chirico era l’opposto.Io ho vissuto benissimo l’Accademia per Scialoja. Però c’era anche un professore che era molto tradizionalista. Al primo anno di Accademia facevo tantissime scenografie belle di Majakovskij, Stravinskij, queste cose ultramoderne e fatte bene. Poi invece questo rapporto con la classicità si è rotto, perché io sono andata dalla parte di Scialoja, che nel frattempo gli dicevano che era moderno. Ma infatti lui era fantastico! Ci traduceva direttamente dei libri in francese che non c’erano in italiano, per esempio dei libri su Djagilev, sui balletti russi in Europa, a Roma, a Parigi soprattutto. Io ero felice, ero impazzita, era quello che cercavo per avere una giustificazione e sapere l’unica cosa nella vita che mi interessava e volevo portare avanti.

Nel 1966 conosci Fabio Sargentini, con il quale nasce una storia d’amore e, nel 1969, vostra figlia Fabiana. Da qui parte un periodo in cui ti sei dedicata interamente alla tua famiglia e alla collaborazione con L’Attico.
Nel 1969, sì. In via del Babuino avevo trovato questa casa minuscola. C’era una libreria Feltrinelli, adesso non c’è più. Questa casa aveva una soffittina e fuori il balcone, adorabile. C’era anche il caminetto. Quella era la mia casa. Quella la preferivo cento volte a questa. Questa casa non l’avrei mai scelta io, sono venuta con Fabiana perché mi avevano cacciato da via del Babuino. Ho abitato dieci anni lì. Questa casetta piccola era proprio orientale. E poi era il momento in cui Fabio ha fatto il primo festival del 1969, di performing art. Ed erano venuti a Roma questi artisti che non erano conosciuti per niente in America, li ha chiamati Fabio e non erano conosciuti. Terry Riley, Philip Glass, dopo, Steve Paxton, il più grande ballerino, La Monte Young…
E quindi tutti questi artisti venivano a casa mia, in questa casetta in via del Babuino, andavamo in soffitta, mettevo un tappeto e stavamo tutti lì seduti per terra a gambe incrociate. Io facevo il riso al curry, un po’ esotico, del tè, e si parlava dei programmi, delle cose che si facevano in galleria, al garage ormai. È stato un periodo molto bello.

L'Attico in viaggio sul Tevere, Roma, 1976. Courtesy Archivio Anna Paparatti
L’Attico in viaggio sul Tevere, Roma, 1976. Courtesy Archivio Anna Paparatti

E quando hai ricominciato a dipingere?
Guarda, ti dico che ho sempre fatto qualcosa all’Attico, sempre. Manifesti, locandine, scritte… con questa mia scrittura infantile, l’ho fatta diventare mia. Scrivo solo così. E poi dopo nel 1974 ho fatto un libretto che mi ha pubblicato Pio Monti, si chiama Storia di uomini duri dai capelli morbidi. 
Poi dopo… in India io disegnavo, sempre! Per tanti anni siamo andati in India almeno una volta l’anno, anche due. Io disegnavo, disegnavo paesaggi, cose che mi venivano in mente, copiavo dalle immagini degli indiani. Disegnavo sempre. Questo fino agli anni Ottanta. Poi io da questi disegni avevo fatto dei quadri, tutti dello stesso formato, piccolini e avevo fatto questa mostra da Pio Monti, La mia India, e c’è un cataloghino con questi quadri. Questi sono gli ultimi rimasti. [indica dei quadri, ndr]
Nel 1990 Pio Monti mi ha fatto la personale. Nel 1991 ho fatto un’altra mostra, Himalaya le montagne del cuore, nella galleria di Liliana Maniero, che era la compagna di Pio Monti. Aveva preso una galleria – che è durata poco – in via di Ripetta. E poi nel 1994 ho fatto la mostra da Annina Nosei, a New York.
Io adoro il Buddhismo tibetano, il Dalai Lama è il top per me. La religione cattolica non mi ha mai dato nessuna fiducia.

O ispirazione.
No zero. Poi in India ho studiato un po’ l’induismo. O nasci lì o basta. Non è che puoi diventare induista. O nasci indù o zero. Quindi nessuno può diventare, gli occidentali si sono inventati queste cose tipo Hare Krishna oppure Osho. Io conoscevo sempre delle persone che mi volevano far entrare in questi gruppi ma io non mi sono mai riconosciuta in nessuno. Mentre invece il buddismo tibetano mi dà le risposte, Dalai Lama è pazzesco.Il Buddhismo è una filosofia, è più una filosofia che una religione. Io sono stata undici volte in India, due volte da sola.

Qual è il tuo primo ricordo dell’India?
La prima volta ci sono andata nel 1976, a Bombay, nell’aeroporto di Bombay. Mia figlia ha scritto una cosa divertentissima: «Ho capito che mia madre era stravagante perché quando siamo andati in India per la prima volta, appena è scesa dall’aereo, ha baciato il pavimento, sicuramente era sporchissimo!» [ridiamo, ndr] e invece per me era il sacro suolo! Io mi sono sentita a casa mia, una cosa meravigliosa.

Qual è il tuo rapporto con la meditazione?
Io ho scritto anche: «Io non medito, dipingo».

Anna Paparatti con, alla cintola, una pistola vera di Pino Pascali, 1965. Foto di Gianfranco Mantegna. Courtesy Archivio Anna Paparatti
Anna Paparatti con, alla cintola, una pistola vera di Pino Pascali, 1965. Foto di Gianfranco Mantegna. Courtesy Archivio Anna Paparatti

Nel 2021 Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa della maison Dior, ti affida la progettazione della scenografia per la sfilata della collezione primavera-estate, a Parigi. Per l’occasione hai deciso di tappezzare l’ambiente con i tuoi Giochi, su uno sfondo nero. Qual è l’origine di queste opere?
Avevo preso una casa con uno dei miei fratelli a Roma, i miei si trasferirono in Calabria, io naturalmente dovevo rimanere a Roma. Mio fratello faceva restauro. Con un po’ delle mie ricerche, attraverso un libro di Jung, Psicologia e alchimia (1944), scopro i primi mandala tibetani riprodotti e anche delle cose simili. Lì ho preso l’idea delle forme circolari. Ero appena tornata da Parigi, avevo parlato francese per tanti mesi e mi piaceva molto. Avevo letto molti romanzi francesi, mi buttavo a capofitto dentro una cosa e la volevo conoscere a fondo. Ero diventata francofona. La cosa incredibile è che nella sfilata di Dior c’erano i miei quadri fatti negli anni Sessanta e le scritte in francese. Da che ero studentessa ero tornata lì in vecchiaia. Strano, no?

Quindi i Giochi nascono dai mandala.
Ma sai che è la prima volta che [questa storia, ndr] mi viene fuori precisa. I quadri poi non ce li ho più, questi quadri che sono stati esposti li ho venduti tutti. 

Anche Maria Grazia Chiuri colleziona le tue opere.
Certo, ne ha comprate due o tre. Era venuta a vedere la mostra a Palazzo Taverna [galleria EDDart, ndr], è amica di Elena Del Drago [gallerista, ndr]. Elena è stata bravissima, le ha dato il mio libro da leggere, la pitturessa. Lei l’ha letto tutto d’un fiato, di notte. La mattina ha chiamato Elena dicendole «Io mi sono innamorata, la voglio assolutamente conoscere». E infatti sono venute qui, dopo un paio di giorni. Ma io non sapevo lei chi fosse.

Tu sei un’artista e hai conosciuto tanti artisti. Ci sono delle caratteristiche senza le quali una persona non può definirsi artista, se ci sono?
Non lo so. Quello che conta sono i quadri, se hai un senso della qualità, ami certi artisti in cui trovi delle affinità. È tutto un non detto che è molto importante. È più importante il non detto del detto, decisamente.

Angelica Raho

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Angelica Lucia Raho

Angelica Lucia Raho

Lecce, 1999. Laureata in Comunicazione e Didattica dell'Arte con una tesi sulla rimediazione del patrimonio etnografico e in Visual Culture e pratiche curatoriali con una tesi monografica sull'artista Anna Paparatti. Collabora con riviste online del settore. Nel 2023 ha curato…

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