Dialoghi di Estetica. Parola a Pietro Conte
Statue di cera, iperrealismo, sublime, astrazione: i campi di ricerca di Pietro Conte, docente di Estetica all’Università degli Studi di Milano, sono tanti e interconnessi. Li attraversiamo in questa intervista
Pietro Conte è Professore associato di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche vertono principalmente sui concetti di “iperrealismo”, “illusione” e “immersività”, nonché sulle differenti pratiche di contestazione e superamento delle tradizionali soglie divisorie tra immagini e realtà. Conte è l’autore di Mito e tradizione. Johann Jakob Bachofen tra estetica e filosofia della storia (Led 2009), di In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo (Quodlibet 2014) e di Unframing Aesthetics (Mimesis International 2020). Ha curato le edizioni critiche dei volumi Scultura funeraria di Erwin Panofsky (Einaudi 2011), Storia del ritratto in cera di Julius von Schlosser (Quodlibet 2011) e La forma degli animali di Adolf Portmann (Raffaello Cortina 2013). Questo dialogo si sofferma su alcuni oggetti delle ricerche di Conte e su taluni temi affrontati nel recente volume da lui curato, Il sublime astratto, pubblicato dall’editore Johan & Levi.
Intervista a Pietro Conte
Un tema di fondo ricorrente nelle tue ricerche è l’instabilità. L’hai affrontato studiando il ruolo di un materiale cangiante quale è la cera; hai ampliato ulteriormente lo spettro di indagine su di esso esaminando i confini (nonché la loro sfuggevolezza) tra immagini e realtà e quelli tra figurazione e astrazione. Da dove trae origine questa impostazione dei tuoi studi?
Probabilmente da una viscerale intolleranza per qualsivoglia “polizia di frontiera” di warburghiana memoria, cioè da un’insofferenza nei confronti degli steccati che sistematicamente vengono eretti tanto tra concetti quanto tra settori scientifici. Mi hanno sempre affascinato le zone di confine, quelle dove più chiaramente si manifesta l’artificiosità e la porosità delle barriere disciplinari. Già durante le mie ricerche dottorali, che hanno poi portato alla pubblicazione della mia prima monografia, ho studiato l’opera bachofeniana da una prospettiva piuttosto anomala, cercando di mostrarne il carattere interdisciplinare tra filologia, scienza del mito, estetica e filosofia della storia. Con In carne e cera, poi, l’oggetto stesso delle mie indagini è diventato, come ricordavi, il materiale instabile, malleabile e ambiguo per eccellenza: non più semplice materia inerte eppure, al tempo stesso, non ancora carne viva, la cera – soprattutto quando usata per realizzare statue iperrealistiche – si pone al confine tra il mondo iconico e il mondo della vita. Questo stesso confine rappresenta il fulcro di Unframing Aesthetics, dedicato al funzionamento delle strutture di incorniciamento e alla loro contestazione in ambito artistico ed estetologico. Ma in fondo, come hai ben visto, di soglie e confini mi sono occupato anche nel volume Il sublime astratto, in cui ho tentato di ricostruire ed esaminare la tesi che istituisce una continuità tra il sublime figurativo e rappresentazionale da un lato e quello radicalmente astratto dall’altro.
L’esperienza con una statua di cera rivela anzitutto le nostre perplessità rispetto alla sua consistenza. Nell’affrontare questo problema hai mostrato che i limiti della rappresentazione, in fondo, rivelano anche altre sue possibilità. Che ruolo ha l’illusione nel quadro di questa riflessione?
L’illusione è un tema centrale nei miei studi. Mi interessa soprattutto tenere distinte due nozioni che tendono spesso a venir sovrapposte: quella di inganno cognitivo-percettivo e quella di illusione estetica. È una distinzione che risuona in varie lingue, come ad esempio l’inglese (illusion/deception) o il tedesco (Illusion/Täuschung). Differenziare i due concetti è cruciale: se non lo si fa, i trompe l’œil e le statue iperrealistiche non potrebbero in linea di principio avere diritto di cittadinanza nel “mondo dell’arte”. Se non lo si fa, si rischia di intendere nel modo sbagliato espressioni cruciali per la descrizione degli ambienti immersivi in realtà virtuale: concetti quali place illusion, body ownership illusion, plausibility illusion non fanno riferimento a un inganno “alla Matrix”, come tanta retorica e tante strategie di marketing vorrebbero far credere, bensì – ancora una volta – a una permeabilità dei confini tra mondo fisico e universi digitali che richiede agli utenti che indossano un headset di stare “al gioco” (illusione deriva da ludus) che viene loro proposto, senza mai dimenticarsi che, se vogliono, è sufficiente togliere il casco per tornare alla vita ordinaria.
Cera, non carne! Eppure, come hai scritto, poiché “la statua di cera è in linea di principio fuori cornice” si potrebbe sostenere che sia “troppo falsa per non essere vera”. Se, da una parte, queste osservazioni permettono di chiarire alcune delle ragioni che, per esempio, hanno determinato le reazioni alle sculture di Maurizio Cattelan a Milano nel 2004, dall’altra esse mostrano anche come il consueto tentativo di descrivere la sua opera Untitled (e con essa anche molte altre) con il termine ‘provocazione’ non porti troppo lontano.
L’estetica evoluzionistica ci insegna che abbiamo bisogno di arte, e più in generale di immagini e di mondi “virtuali”. Così tanto bisogno che tendiamo a definire qualunque novità in termini di provocazione, descrivendola come qualcosa che suscita in noi una reazione di spaesamento e talvolta di agitazione o irritazione, allontanandoci dalla (presunta) narcosi dell’esistenza quotidiana. Ma basta chiedersi in che cosa tale provocazione consista per trovarsi in difficoltà. La body art è (stata?) provocatoria; una Pharmacy di Damien Hirst è provocatoria; un Banksy è provocatorio (ma lo è anche l’atto di bruciare un Banksy dopo averne tratto un NFT!). Il teatro “sperimentale” ha provocato quello tradizionale, basato sul modello della scatola chiusa e della quarta parete, sin dai primi del Novecento. E tuttavia, non potremmo legittimamente sostenere che i racconti mitici delle contese tra Zeusi e Parrasio e tra Fidia e Alcamene, ambientati in piena Grecia classica, ci parlino proprio di clamorose provocazioni artistiche? Mi viene insomma da dire che tutta l’arte, per poter essere tale, debba essere trasgressiva, nel senso etimologico del termine: deve trans-gradi, “oltre-passare” i limiti (ed eccoci di nuovo al tema da cui questo nostro confronto ha preso le mosse) del già noto, del già detto, e del come qualcosa è già stato reso noto ed è già stato detto.
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Prima ti chiedevo della instabilità anche perché è profondamente legata a quella che, in modo non così soddisfacente, potremmo chiamare “la questione liminale”. Essa è al centro di una disputa teorica di metà Novecento che prende forma attraverso le pungenti osservazioni di uno storico dell’arte, Erwin Panofsky, e di un’artista, Barnett Newman. Perché hai scelto di riportarla in primo piano?
In primo luogo perché è divertente! L’incontro, piuttosto casuale, tra uno dei più grandi storici dell’arte e uno dei più grandi artisti si trasforma immediatamente in uno scontro fatto di lettere e contro-lettere, frecciate e contro-frecciate, battute e contro-battute, il tutto a un livello estremamente colto e raffinato. In secondo luogo perché, dietro le motivazioni di facciata della disputa (in sé e per sé riconducibili a una quisquilia filologica piuttosto stucchevole concernente l’impiego del termine latino ‘sublimis’ o ‘sublimus’), si celano in realtà questioni decisive per la storia dell’arte contemporanea – questioni che riguardano la natura stessa dell’astrazione, i suoi possibili significati, il suo rapporto con la tradizione figurativa e il rischio di venir intesa alla stregua di semplice decorazione ornamentale.
Il sublime astratto ha infatti il merito di restituire il profilo di una disputa in cui la questione liminale è discussa alla luce della pretesa purezza dell’arte, ossia della pittura, che, come ammette Newman, è anzitutto questione di cosa dipingere e non di come farlo. Qual è il ruolo della coerenza in questa disputa?
Mi colpisce questo termine che hai deciso di impiegare, ‘coerenza’. È un termine fondamentale per Barnett Newman, che con grande perseveranza cercò di restare fino in fondo coerente, appunto, con quella che considerava una vera e propria missione: conferire alla pittura una nuova subject matter, espressione difficile da tradurre che allude non solo a un orizzonte tematico, ma anche a un differente ruolo che la “materia” di cui è fatta l’arte (pittorica, in questo caso) dovrebbe svolgere per il “soggetto”.
Un altro aspetto importante è che il seguito di quella disputa, oltre a rivelare l’attualità del problema delle soglie di rappresentazionalità, come osserva Arthur Danto – tra i filosofi che hanno contribuito al suo rinnovamento – invita anche a riflettere tanto sulle vette più sublimi che la pittura può raggiungere quanto sui diversi modi di continuare a discuterne. A tuo modo di vedere, quale valore hanno le riflessioni offerte dalla disputa per la comprensione delle arti contemporanee?
Mi pare che questa domanda sia strettamente connessa alla precedente. Il “soggetto” cui ho fatto riferimento va inteso come l’essere umano che tutti noi siamo. Questo essere umano, kantianamente (Newman aveva studiato filosofia), è l’essere morale; e coerenza, per l’artista newyorkese, significava soprattutto questo, moralità. Newman dipingeva e scriveva per gli esseri umani del post-Hiroshima. Mi sembra che il messaggio delle sue tele e dei suoi testi sia però drammaticamente attuale. Questo messaggio – che per Jean-François Lyotard “non ‘parla’ di niente”, “non deriva da nessuno”, e che non è altro che “la presentazione, ma di nulla, cioè della presenza” – ha un nome nella tradizione tanto filosofica quanto artistica: sublime. Contra James Elkins, che ha sostenuto che ‘sublime’ sia un termine ormai privo di senso, ritengo che la disputa tra Panofsky e Newman ci insegni proprio a cercare quel sentimento misto in sempre nuovi luoghi, in sempre nuove esperienze, al di là delle barriere tra arte, filosofia, religione e, perché no, scienze dure. In fondo, ‘sublime’ è il nome di tale sconfinamento.
Davide Dal Sasso
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…