Intervista al musicista William Basinski che arriva al Jazz Is Dead! Festival di Torino

Tra i protagonisti della nuova edizione della rassegna torinese di musica sperimentale che inizia il 28 aprile al Lingotto, il produttore statunitense presenta il suo ultimo album concepito negli Anni Settanta. Lo abbiamo intervistato

Anticipato il 6 e l’8 aprile dalla doppietta di live (a Torino e a Milano) della pioniera dell’elettronica Suzanne CianiJazz Is Dead! Festival riapre finalmente i battenti. Resa possibile grazie alla sinergia fra le associazioni TUM Torino, Magazzino sul Po e Arci Torino, questa settima edizione della rassegna alza ancora di più il tiro rispetto agli anni passati. Oltre ad artisti del calibro di Moritz Von Oswald, Daniela Pes, I Hate My Village e Godflesh, spiccano, infatti, i nomi di due mostri sacri della sperimentazione sonora contemporanea. Stiamo parlando di John Zorn e William Basinski, il primo atteso per il 28 aprile all’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, mentre il secondo per la sera del 24 maggio al Bunker. E proprio quest’ultimo è al centro di un’intervista magnetica, esattamente come i nastri che utilizza per le sue (de)composizioni.

Chi è William Basinski

Collettivamente noto come uno dei pilastri della musica ambient/drone, William Basinski (Houston, USA, 1958) porta avanti da più di quarant’anni una ricerca meticolosa e radicale di decostruzione del suono. Lavorando principalmente con l’utilizzo di nastri e registratori, il produttore statunitense è riuscito a farsi notare grazie al suo particolarissimo approccio alla musica: un modus operandi nel quale rumori, suoni e melodie vengono usati, tra rallentamenti e campionamenti vari, come dei veri e propri strumenti concreti. È questo il caso del ciclo di album The Disintegration Loops: una pietra miliare del genere nata proprio dallo sgretolamento fisico, in fase di riversamento su CD, di alcuni vecchi nastri deteriorati. Un’opera immensa divenuta, per una strana coincidenza, una sorta di monumento commemorativo alla tragedia dell’11 settembre. Collaboratore di artisti quali James ElaineBob Wilson e Marina Abramović, Basinski ha da poco dato alle stampe un album concepito e raccolto sul finire degli Anni Settanta, The Clocktower at the Beach (1979). Approfittando di tutte queste occasioni, siamo riusciti a farci accogliere virtualmente nella sua abitazione per fargli alcune domande.

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William Basinski. Photo ©2015 Danilo Pellegrinelli

L’intervista a William Basinski

Nelle tue opere, concetti come il tempo e la memoria giocano un ruolo fondamentale. 
Questo lo si nota anche dal tuo ultimo album The Clocktower at the Beach (1979). Raccontaci qualcosa sulla sua genesi e sul perché di quella data specifica.
Si, era il 1978 quando ho lasciato la scuola di musica in Texas e mi sono trasferito a San Francisco per stare con il mio compagno, James Elaine. Da lì ho iniziato a lavorare con i nastri magnetici. Jamie era un artista ma lavorava nei negozi di dischi. È un grande appassionato di musica, un grande collezionista di dischi e tornava a casa ogni giorno con tutta la roba più cool e d’avanguardia dalla Germania e dall’Europa, insomma, tutto quello che di più strano c’era in giro. Così ho avuto modo di ascoltare tutto questo materiale che mi ha aperto completamente la mente e mi ha fatto capire che anche io avrei potuto fare qualunque cosa. Avevo comprato delle vecchie bobine Phillips in un negozio di cianfrusaglie per dieci dollari, e una scatola di altri vecchi nastri. E così ho cominciato a fare loop e a registrare tutto. Avevamo un appartamento di sei stanze a Haight-Ashbury, a San Francisco, e non c’erano quasi mobili, a parte i suoi quadri che aveva messo ovunque. Facevamo installazioni e quant’altro. Jamie raccoglieva per strada vecchi televisori rotti Anni Cinquanta dell’era spaziale, piccole TV in bianco e nero, e li portava a casa per vedere cosa ne sarebbe uscito fuori. 

Praticamente vivevate in una specie di installazione di Nam June Paik…
Sì, in un certo senso… avevamo televisori in giro che emettevano rumori strani sai, e allora ho registrato tutti questi droni e poi li ho rallentati. Clocktower at the beach è nato così, è davvero uno dei primi lunghi pezzi drone che abbia mai fatto, è una profonda traccia d’archivio. La torre dell’orologio sulla spiaggia, invece, proviene da un sogno che ho fatto. A San Francisco, sulla strada principale che scende verso la baia, alla fine di Market Street, c’era un vecchio e grande edificio, che è ancora lì, una specie di terminal con una torre dell’orologio. E non so, mi è venuto in mente in un sogno o qualcosa del genere, forse era un trip di acidi, non ricordo.

In un’epoca così caotica e piena di stimoli, qual è il valore del produrre un certo tipo di musica? Cosa pensi del modo in cui la gente ascolta la musica oggi? 
Siamo costantemente bombardati dal caos, dalla disinformazione e dalle assurdità, è semplicemente sconcertante. Ciononostante, mi sono accorto che negli ultimi dieci anni, specialmente dall’inizio della pandemia, la gente è diventata più consapevole e più interessata a lavori ambient basati sul tempo come i miei. Questo è molto incoraggiante e mi rende contento. 

Quindi ne hai un parere positivo dopo tutto…
Sì, sono felice di essere utile, le persone mi scrivono continuamente per dirmi quanto il mio lavoro sia importante per loro e cose del genere. Quindi sì, per uno che ha lavorato nell’oscurità per vent’anni, devo dire che è piuttosto bello. 

Come ti senti a vivere in questo momento storico di dominio digitale? 
Madonna, è un casino. 

E cosa ne pensi dell’intelligenza artificiale? 
Oh Madonna… Per favore, è una follia, ecco cos’è. Non si punzecchia un orso che dorme con un bastone per vedere cosa succederà… Cazzo! Israele ha un programma di intelligenza artificiale chiamato Lavender che permette di trovare i terroristi a Gaza. E indovinate un po’? Non erano i terroristi quelli che hanno ucciso, ma operatori umanitari. Ed è come se nessuno potesse essere incolpato perché è stato Lavender, ha fatto la bua. Beh, Cristo santo, c’era da aspettarselo. Non mi piace, diciamo così.

Ok, passando allora all’arte contemporanea: tra le varie cose che hai fatto hai anche lavorato al fianco di Bob Wilson e di Marina Abramović per la composizione, insieme ad Anohni, delle musiche dello spettacolo The Life and Death of Marina Abramović. Com’è confrontarsi con artisti così importanti?
Beh, è stata l’esperienza di una vita. Non avevo mai lavorato in teatro e quando nel 2009 o giù di lì Anohni mi ha chiamato per chiedermi di co-dirigere la musica dello spettacolo mi è caduto il telefono dalle mani, ma poi l’ho ripreso. Così abbiamo iniziato a metterci sotto. È stata un’esperienza incredibile, ho fatto molte ricerche sulla musica balcanica negli Anni Cinquanta, quando Marina stava crescendo, perché l’opera inizia con lei da ragazza. Ho creato alcuni loop con quelli e poi ho scelto un po’ di cose diverse dal mio archivio per alcune scene particolari. Lavorare con un gruppo enorme di persone come quello, con un cast di 20 o 25 membri senza contare la crew di Bob, la crew dei tecnici, ecc. ti fa diventare molto amico di tutte loro e ora sono tutti amici di una vita.

Il 24 maggio sarai a Torino, in occasione di Jazz Is Dead! Festival, con la tua unica data italiana. Puoi anticiparci qualcosa di quello che sarà il tuo live?
È il live più intenso che abbia mai fatto, è il mio spettacolo da guerra, è il mio spettacolo “Questa merda deve finire“, sai, con tutti questi fottuti stronzi che cercano di distruggere tutto. 
Il lavoro nasce da alcuni dei pezzi principali del mio disco Lamentations (come il sopracitato Please, This Shit Has Got To Stop N.d.R.), mescolati con un pezzo d’archivio chiamato The Last Symphony che ho fatto nel 1984 circa, in una fase molto massimalista del mio lavoro di allora. Ci sono tutti i tipi di loop e cose diverse che vanno qui e là ed è molto intenso. Quindi è uno show molto estenuante e speciale. Vedrete.

Valerio Veneruso

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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