La pittura elettronica di Davide Coltro è al MA*GA di Gallarate. L’intervista
Con il nome di 'Astrazione Mediale', la nuova personale dell'artista veronese al MA*GA di Gallarate è un viaggio in una serie di installazioni che approfondiscono il suo linguaggio mediale, astratto e sintetico
Ci sono pochi artisti in Italia che hanno pensato così tanto e fruttuosamente al mondo digitale, e alla sua repentina evoluzione e applicazione artistica, come Davide Maria Coltro (Verona, 1967), noto per essere “l’inventore del quadro elettronico”. Questa pittura elettronica – diventata celebre con la partecipazione al Padiglione Italia nella 54. Biennale di Venezia – assegna al linguaggio mediale delle connotazioni astratte e codifica degli elementi fondamentali (come bit e pixel) in una combinazione sintetica e filosofica inedita. Ora, la sua produzione più recente è in mostra al Museo MA*GA di Gallarate.
La mostra di Davide Coltro al MA*GA
Curata da Alessandro Castiglioni con il contributo critico di Elena Pontiggia (visitabile fino all’1 settembre 2024), l’esposizione Astrazione Mediale si pone in continuità con una più ampia analisi dell’arte astratta, dal Movimento Arte Concreta alla Pittura Analitica. Coltro interpreta questi temi come il dialogo tra arte e scienza, le nuove frontiere conoscitive dei Visual Studies e la ridefinizione del rapporto tra arte e spiritualità, ottica secondo la quale il museo si fa qui luogo di contemplazione. Parallelamente alla mostra, l’artista punta a entrare in contatto diretto con il pubblico, da un lato connettendosi al tessuto cittadino di Gallarate con le proprie opere, trasmesse nei totem digitali sparsi per la città (secondo il concetto di “Quadro civico” già portato a Shanghai nel 2006); dall’altro affiancando alla mostra un programma di workshop permanente sul rapporto tra fisicità tecnologica e immaterialità digitale.
L’intervista a Davide Maria Coltro
In cosa si differenzia la tua più recente produzione dalle opere storiche?
All’inizio ho sperimentato la pittura con materiali alternativi, dopo qualche tempo mi sono appassionato alla pittura digitale e tramite le tecnologie di stampa: di conseguenza è venuta l’intuizione di poter utilizzare i display come tele, non più come luoghi dove proiettare immagini ma superfici di nascita e trasformazione della pittura. Per molto tempo mi ha accompagnato una certa distanza dall’arte astratta, che mi appariva residuale ma, negli ultimi anni mi ha coinvolto totalmente. L’espressionismo astratto americano, il rigore costruttivista, l’arte cinetica e programmata, la pittura analitica europea insieme all’arte relazionale e pubblica sono entrati nella costruzione del mio traballante edificio culturale. È stato come affrontare un nuovo inizio, ripartendo dalle aste e dai puntini. Alcune serie posso già considerarle capisaldi della prima tappa di questo percorso, iniziato nel 2018: Strings, Diapason, Mosaic, Metropolis, Code.
Come definiresti la “pittura oltre la materia”?
L’arte è originata da necessità spesso inesprimibili attraverso parole e concetti e si trasmette a sua volta generando stimoli che muovono lo spirito non necessariamente chiamando in causa la parte razionale che formula il linguaggio. La “pittura oltre la materia” utilizza principi comuni con la pittura tradizionale medializzati dalle tecnologie elettroniche ed informatiche: il monitor viene utilizzato per generare campi cromatici che emettono luce laminale, il colore è visibile ma non è depositato materialmente sulla superficie cangiante perché, citando Nicholas Negroponte, questa pittura è passata da “atomi a bit”, grazie al codice che viene eseguito dal Quadro Mediale, riconfigurano continuamente i pixel in un flusso mediale ininterrotto. In qualche modo sono tornato a un principio di intoccabilità del colore.
Come si colloca la riflessione sulla spiritualità nel contesto dei Visual Studies?
È una domanda interessante quanto insidiosa, perché sembra che le urgenze teoriche e scientifiche degli Studi Visuali non abbiano grandi punti di contatto con la parte spirituale dell’uomo. W.J.T. Mitchell, tra i massimi teorici della Visual Culture, include tra i suoi fondamenti il rapporto image/picture, dove “picture” è l’entità fisica, il supporto o media che ospita l’immagine, mentre con “image” individua una proprietà immateriale, l’essenza che rende un’immagine identificabile anche se trasferita da una media a un altro, o anche solo come immagine mentale. Di questo, c’è un presupposto autorevole nella Fenomenologia di Hegel. Credo che i Visual Studies aprano nuove prospettive anche al di fuori della loro linea di critica politica, sociale, ed economica, radicata in un materialismo storico filtrato e attualizzato: io prendo in considerazione la lunga storia delle immagini sacre e della loro potenza comunicativa, con particolare attenzione alla categoria degli “ex voto” e della “sante reliquie”.
L’arte digitale secondo Davide Coltro
Quale pensi sia la direzione dell’arte digitale? E qual è, se c’è, il contributo dell’Intelligenza Artificiale in questo scenario?
L’arte digitale, che ha iniziato le sue attività ancora negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con prassi e finalità sperimentali del tutto divergenti da quelle attuali, aveva una componente teorica impegnata e coerente. Nel nostro tempo presente si è arricchita di mezzi troppo avanzati rispetto alla riflessione artistica che, a mio avviso, manca di sincronia con questi scenari accelerati. Tranne pochi casi di artisti che hanno seguito una ricerca impegnata e coerente, ci troviamo immersi in un proliferare di spettacolarizzazioni che appartengono all’intrattenimento, al design visuale ed alla creatività ma poco all’arte. Gli NFT sono stati la cartina tornasole di una superficialità che ha confuso molto e molti. Rispondendo alla tua domanda, penso che sia necessaria, da parte degli artisti, una riflessione teorica sistematica, liberata dal giogo della tecnologia e del suo asservimento. Senza questo sforzo sarà difficile uscire da una spirale di banalità che impedisce la fioritura di opere significative e mature rispetto a questi nuovi media che vanno metabolizzati e non solo dissezionati e classificati nei loro effetti sociali. Benvenuta l’IA che rappresenta la sintesi del progresso tecnologico in questione, dovrebbe essere considerata strumento, sebbene eccezionalmente evoluto, senza idiosincrasie o slanci irrazionali. Sarà compagna nel futuro e credo che già ora il processo sia irreversibile, ci saranno molti cambiamenti come una grande onda che sarà meglio surfare piuttosto che venirne travolti.
Come hai riadattato il concetto di Quadro Civico presentato in Cina all’ambiente (e alla cittadinanza) di Gallarate?
Sono passati molti anni da quando ho tentato questo esperimento di espansione dello spazio espositivo. Bisogna considerare la diversa disposizione dei “Terminali Artistici Remoti”, che possono essere visti da un alto numero di persone senza che nessuna di queste abbia scelto di accedere ad un preciso luogo espositivo: viene disegnata una mappa relazionale che coinvolge il pubblico eterogeneo in transito, l’opera stessa come flusso mediale, l’assenso dei gestori delle risorse pubbliche, lo spazio urbano vissuto dalla comunità e infine l’artista come scaturigine del processo. Con grande generosità l’Assessorato alla Cultura ha messo a disposizione tutti i punti informativi digitali disponibili con un’azione civica e culturale concreta. Questi totem di medio formato, verticali e ancorati al suolo, sono osservabili da vicino come le opere allestite al Museo MA*GA. La differenza di fruizione è sostanziale rispetto ai grandi schermi che avevo utilizzato nel lontano 2006 a Shanghai perché l’osservazione ravvicinata crea maggiore empatia tra l’opera ed i suoi fruitori. Trasformare la pittura in un flusso digitale è il progetto che sviluppo da 25 anni, il mio messaggio ripete che l’arte è un valore che alimenta la vita, e penso sia una strada da percorrere fino in fondo.
La tua è un’arte “difficile”? Con questa personale si punta agli addetti ai lavori o invece a raggiungere un pubblico più ampio?
Non credo si possa parlare di “un’arte difficile”, le mie opere hanno sempre avuto una “schermatura” estetica che le ha rese molto gradite al pubblico più eterogeneo, aspetto che ha tratto in inganno quanti non hanno saputo oltrepassare questo filtro. Probabilmente, la fruizione leggera e un generale disimpegno culturale, hanno contribuito a generare dei vuoti lessicali e semantici bloccando molti alla prima interpretazione. Negli ultimi anni sono uscite due pubblicazioni con intenti divulgativi, ma impegnati scientificamente, per nutrire le aspettative cresciute intorno all’esito della mia ricerca, scritte da Alberto Fiz ed Elena Pontiggia, ed entrambe si sono rivelate molto utili per colmare le lacune interpretative. Il progetto del MA*GA ora intende eliminare gli equivoci di lettura del vecchio scenario, e insieme al curatore Castiglioni, Pontiggia e altri critici stiamo lavorando ad un volume che speriamo sia fonte di interpretazione per questa nuova linea di indagine del tutto “anoggettuale”. La mostra rappresenta solo una parte del progetto che intende facilitare la fruizione e comprensione del mio lavoro, condividendo l’esperienza con laboratori didattici e visite guidate appositamente preparate. L’ambizioso intento è di raggiungere sia gli addetti ai lavori che il pubblico più ampio.
Giulia Giaume
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