La moda sovverte gli stereotipi di genere. Intervista a Stefano Tonchi
Allo SCAD Museum of Art di Savannah, negli USA, Stefano Tonchi e Marta Franceschini hanno curato una mostra che indaga la relazione tra moda e corpo nell’ambito della rivoluzione del gender
La moda è un barometro, riflette i cambiamenti sociali e culturali. La moda è un manifesto, un modo per rappresentare la nostra identità. La moda è un laboratorio, luogo di sperimentazione di nuove idee. Oggi che le nostre società sono attraversate da cambiamenti che mettono in discussione le identità rigide tradizionali per sperimentare con definizioni più fluide, la moda non può che essere protagonista. Di questi temi abbiamo parlato con Stefano Tonchi, giornalista e curatore, già editor di The New York Times Style Magazine, che di recente, insieme all’esperta di storia della moda, Marta Franceschini, ha firmato la mostra Genderquake: Liberation, Appropriation, Rejection, in corso allo SCAD Museum of Art di Savannah, Georgia. Attraverso il filtro della moda, la mostra analizza come le nozioni di genere siano state affrontate, adattate e reinventate più volte nel corso degli anni, mettendo in discussione gli stereotipi e le rigidità identitarie.
La mostra “Genderquake” allo SCAD Museum of Art di Savannah
Tonchi ha un rapporto di lunga data con SCAD, università dedicata alle professioni creative che ha appena celebrato il suo 45esimo anniversario e dotata di un importante dipartimento di moda. La mostra Genderquake è parte della programmazione 2024 del museo dell’università, fondato nel 2011 e dedicato a mostre di artisti internazionali di diverse discipline. L’idea da cui nasce è di riconoscere la capacità della moda di materializzare messaggi e supportare l’espressione di identità individuali e collettive.
Intervista al curatore Stefano Tonchi
La tua collaborazione con SCAD ruota intorno all’idea di una moda portatrice di messaggi. Dicci di più.
Mi interessa analizzare la capacità della moda di portare messaggi non solo nella forma di una t-shirt che dichiara uno slogan – anche quello è importante, ma forse un po’ troppo didascalico – ma in altre forme più complesse. L’idea di questa mostra parte da un progetto che avevo presentato a SCAD un paio di anni fa e che vedeva appunto la moda come protagonista di cambiamenti e portatrice di messaggi politici e sociali, tra cui questioni di genere, di razza e di sostenibilità. L’idea era creare delle capsule, dei sommari di grandi mostre che si potrebbero fare in futuro, affrontando questi grandi soggetti, segnando i punti fondamentali della conversazione.
Una delle riflessioni più attuali è quella sul genere che non è mai stata così aperta e vivace. Credi che la moda abbia contribuito a questa apertura?
La moda e gli stilisti sono stati importantissimi nel creare e diffondere un’idea di possibilità e credo abbiano avuto un’influenza positiva sulla questione. Anche perché le immagini della moda circolano tanto, la moda ha una forte presenza mediatica e potere finanziario e gli stilisti hanno influenza, specie sulle nuove generazioni. La moda propone e afferma i cambiamenti e da questo viene anche una grande responsabilità.
Credi che la moda stia cambiando anche il modo in cui ci relazioniamo ai nostri corpi?
La moda rispecchia sempre i cambiamenti in modo molto immediato. Cambiando ogni sei mesi, ha la capacità di riflettere le trasformazioni sociali a una velocità più alta di altre discipline. E poi, siccome ce la mettiamo addosso, diventa un manifesto di quel cambiamento. Quando Mariano Fortuny crea un abito di plissé che libera il corpo femminile e permette alla donna di muoversi in modo completamente diverso, esprime questo cambiamento. Un esempio anche più simbolico è quello del reggiseno: è stato bruciato e sono stati creati abiti come la giacca di Saint Laurent portata sul seno nudo o abiti trasparenti che mostrano il seno ed esprimono un’idea di donna libera e protagonista che rivendica il proprio corpo e vuole mostrarsi. Ma allo stesso tempo quella stessa donna poi decide di mettersi e mostrare il reggiseno e lo fa come atto di affermazione, che è altrettanto potente dell’eliminazione. La moda ha un incredibile potere nel definire i tempi e portare messaggi.
La mostra allo SCAD secondo Stefano Tonchi
Come avete approcciato il tema del genere per la mostra attualmente in corso allo SCAD Museum?
Volevamo sintetizzare la relazione tra moda e gender e abbiamo scelto 28 abiti che raccontano questa storia. Abbiamo identificato tre momenti, non cronologici ma tematici. Il primo è Liberazione, ovvero l’idea di liberare il corpo dalle costrizioni imposte dal gender e quindi mostrare parti prima nascoste. Il secondo momento è Appropriazione, ovvero il momento dell’affermazione del gender, rappresentato da tuttti quegli abiti o “super femminili” o “uber maschili” che usano la moda per affermare la sessualità o metterla in discusssione. Infine c’è il momento del Rifuto, la rejection del genere, rappresentata da abiti che rifiutano completamente la defnizioni di femminile e maschile ma anche di gay o etero, abiti che non hanno una caratterizzazione di genere o che trasformano quelle caratterizzazioni in modo da rendere impossibile definire il gender guardano l’abito.
Puoi darci qualche highlight?
All’interno di ogni gruppo abbiamo scelto degli abiti guida. Iniziando da Mariano Fortuny che, nel primo Novecento, elimina l’idea del busto, della struttura, liberando il corpo femminile viene dalle costrizioni. All’interno dello stesso momento c’è anche l’eliminazione, con Giorgio Armani, delle spalle nella giacca da uomo o l’abito maschile con i pantaloni corti, il mostrare il décolleté sia nell’uomo che nella donna. In questo gruppo c’è anche la minigonna di Mary Quant, che mostra la gamba come zona erogena. Nella seconda sezione, con Dior negli Anni Quaranta e Cinquanta si ritorna all’idea del busto, della vita piccola, della gonna che evidenzia una certa silhouette femminile. Idee che cinquant’anni dopo sono state riprese da stilisti come Giambattista Valli e Versace. Qui abbiamo un pezzo ironico come quello di Walter Van Beirendonck, un giubbotto gonfiabile con dei pettorali aggiunti, o Dolce e Gabbana che aggiungono la guepiere o ancora un corsetto di Vivienne Westwood che reintroduce l’idea del pannier. Della sezione Rifiuto fanno parte quegli abiti che annullano l’idea del gender, come la cappa o come la tuta. Per esempio abbiamo messo una tuta di Pierre Cardin. Così come ne fanno parte alcuni capi che spostano le zone erogene del corpo, come l’abito di Comme des Garçons che diventa una scultura con delle escrescenze in posizioni che non hanno niente a che fare col gender.
Il modo in cui la moda ha espresso il dibattito sul genere quindi va oltre il far indossare certi elementi da donna all’uomo e viceversa. È questo che racconta la mostra?
La mostra non è una celebrazione sulla confusione di genere o sulla fluidificazione, non è il maschile vs femminile che ci interessava, ma il rapporto tra gli abiti e il corpo e come gli abiti possano liberarlo, rafforzarlo o rifiutarlo. Non è solo l’appropriazione di un genere da parte dell’altro perché quello in qualche modo riconferma l’idea dell’identità di genere: se un uomo invece di vestirsi da “super uomo” si veste da “super donna” non cambia la situazione, come la donna in tailleur o in smoking che riafferma l’identità maschile, perché l’abito ha vestito quell’idea di uomo e donna. Non abbiamo voluto raccontare il gioco dei sessi, ma il gioco tra corpo e moda.
Il peso della moda italiana
Quale è stato il contributo della moda italiana al dibattito sul genere?
La moda italiana è stata importantissima. E tuttavia è spesso poco rappresentata perché abbiamo un sistema della moda molto frammentato e in Italia manca completamente la storicizzazione della moda. Mentre per la moda francese e anche quella inglese ci sono libri, mostre, storicizzazione, la moda italiana è un po’ dimenticata perché è stata considerata molto spesso industriale, commerciale, non portatrice di grandi idee. Io e Marta Franceschini siamo grandi cultori della moda italiana, abbiamo fatto insieme anche una mostra al MAXXI sull’alta moda italiana in dialogo con arte e cinema e, più di recente, una mostra a Milano sulla nascita del prêt à porter. Quando faccio mostre cerco sempre di includere la moda italiana, non solo perché ha avuto stilisti importanti ma anche perché ha volgarizzato e reso utilizzabili certe idee che poi sono andate in vendita e hanno vestito persone in tutto il mondo, più della moda francese.
Puoi darci qualche esempio?
La moda italiana è responsabile della modernizzazione della moda maschile. Si deve soprattutto a stilisti come Armani e Versace la rivoluzione nel modo in cui si vestono gli uomini nel mondo: la giacca sfoderata o destrutturata, l’abbigliamento maschile che segue le forme del corpo, sono invenzioni italiane. Come lo è una certa idea di prêt à porter: nello stesso momento in cui Dior proponeva il ritorno a una vita da vespa e gonne immense che non entravano in macchina, Emilio Pucci metteva le donne in jersey stampato e creava abiti che potevano essere arrotolati e messi in valigia. Sono due punti di vista incredibilmente diversi. È un’invenzione della moda italiana la capacità di rispondere ai cambiamenti sociali con prodotti a grande diffusione, l’idea del design di moda come design industriale è un’invenzione italiana.
Maurita Cardone
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