Il progetto artistico che vede il mondo della notte e dei night club come laboratorio creativo
Anche i night club possono essere luoghi d’arte. Abbiamo incontrato il duo curatoriale composto da Manuela Nobile e Sara Van Bussel, che realizza mostre d’arte contemporanea calate nell’universo della notte
Attraverso diverse tipologie di progetti, come la trilogia incentrata sul corpo Look at Me o il format Contaminazioni in cui arte e musica dal vivo si fondono, il duo mira a portare l’arte contemporanea in situazioni sperimentali all’interno di luoghi anti-convenzionali. Lavorando nel mondo della notte, specialmente nei locali, Sara Van Bussel e Manuela Nobile propongono una visione del fare arte che si apre al nuovo e al diverso, accettando l’incognito come parte integrante del processo.
Intervista a Sara Van Bussel e Manuela Nobile
Per diventare curatori spesso non esiste un iter prestabilito ed è molto variabile a seconda dalle esperienze personali di ognuno. Parlatemi del vostro percorso formativo e da dov’è nata l’esigenza che vi ha portato a esplorare questa pratica.
Sara Van Bussel: Io ho una formazione da storica dell’arte, ho poi fatto una magistrale in teoria d’arte contemporanea, ai tempi convinta di voler procedere nella carriera accademica e proseguire con un dottorato. Ho fatto tutti gli studi all’università di Amsterdam: questa formazione estera mi ha permesso di iniziare a lavorare nel mondo dell’arte molto presto (a 23 anni ero manager di galleria). Accanto agli studi viaggiavo spesso per fiere, sono riuscita in questo modo a capire come la mia formazione universitaria si traducesse poi nel concreto in un lavoro nel settore da me scelto. Ho presto capito che il mondo accademico era per me troppo statico e freddo, stare a contatto diretto con gli artisti ma ancor più con le opere era quello che mi permetteva di combinare la mia conoscenza con la ricerca, che sono convinta stia alla base di tutto. Una buona curatela è per me frutto di buona ricerca, le due cose sono correlate. Riuscendo a tradurre la ricerca in curatela ho trovato il modo di fare dell’arte che non restasse statica su saggi o libri accademici, ma che entrasse nella vita di tutti i giorni, quello che io e Manuela miriamo a fare con i nostri progetti.
Manuela Nobile: Trasferendomi da Genova a Milano per intraprendere gli studi in design della comunicazione all’Accademia di Belle Arti di Brera e poi alla Naba, mi sono specializzata in direzione artistica. Di pari passo, oltre ai lavori da graphic designer, ho iniziato a coltivare relazioni con il mondo dell’arte. Nel 2019, a 22 anni, ho fondato State Of, un progetto espositivo d’arte contemporanea ospitato da uno show-room di moda nel cuore di Milano, con lo scopo di creare una piattaforma multidisciplinare in un luogo non convenzionale. La fortuna di aver appreso un mestiere che mi permettesse di creare da zero un progetto occupandomi di aspetti come l’identità visiva, la gestione, la curatela e la connessione valoriale poi successivamente avuta con Sara, mi è servita a sviluppare delle capacità che ancora oggi mi sono molto utili nel nostro progetto.
Nel periodo in cui ci siamo conosciute, Milano per me e Sara era diventata viva solo la notte, quando, dopo lavoro, riuscivamo a staccare e partecipare a manifestazioni artistiche e non. Da qui il motivo per cui abbiamo scelto di diventare un duo e di curare solo progetti notturni.
Che significato ha per voi la parola ‘curare’, e come si declina nell’arte contemporanea?
S.V.B.: Curare per noi vuol dire proprio etimologicamente prendersi cura. Come tutto quello che è fare cultura, si coltivano su terreno fertile una serie di ingredienti che vengono poi restituiti, si crea un linguaggio, un concerto di domande e riflessioni. Curare è anche, e lo sottolineo, lavoro. Questo comprende responsabilità in merito al concept, agli allestimenti, all’organizzazione, alla promozione e alla gestione finanziaria, in primis a servizio dell’artista. Ma l’arte non è altro che un sistema di azione collettiva, fatto da un insieme di individui, influenzato da cambiamenti storico culturali.
In un Paese in cui fare cultura è visto come accessorio e svagante, per noi è importante farla penetrare nella vita di tutti i giorni appunto per creare delle nuove riflessioni. La curatela è spesso capace di indirizzare le tendenze internazionali e ricercare una selezione di artisti, coinvolgendoli in progetti spesso tematici.
I progetti di Sara Van Bussel e Manuela Nobile
Parlatemi di un progetto che avete realizzato, sintesi dei vostri interessi e della vostra ricerca. Cosa vi interessa approfondire tramite il vostro lavoro?
M.N.: Se dobbiamo scegliere di raccontare un progetto, credo che la prima mostra della trilogia fatta insieme, LOOK AT ME VOL. I, sia quella che più ci rappresenti e che abbia in qualche modo formato la nostra identità, tanto che alcune persone ci chiamano “quelle di Look at Me”.
In questo caso specifico siamo partite dalla location, uno strip club a Milano, luogo intimo di venerazione del corpo, elemento che è stato il tema di tutta la trilogia. La ricerca degli artisti sul corpo doveva essere delicata e dedicata alla location. Volevamo che ognuno di loro fosse libero di lavorare come meglio credeva e ci piaceva l’idea che ci fossero diversi medium, dalla poesia erotico-sovversiva di Giulia Crispiani alla coreografia introspettiva di Michele Rizzo fino ai magici disegni di Flaminia Veronesi. Credo che il nostro più grande interesse in comune dunque sia la curiosità di mescolare diversi mondi e la nostra forza sia avere il coraggio di scegliere luoghi incontaminati dal punto di vista artistico culturale.
L’arte è da sempre parte integrante di ogni cultura e società. Nella contemporaneità, che ruolo sociale pensate che abbia un curatore e quali sono le sue sfide?
M.N.: Credo che il principale motore che dovrebbe muovere oggi la figura del curatore sia quello di opporsi al più confortevole capitale morale, cioè quello del formato calice di vino e taralli. Questo genere snob di omologazione dovrebbe esser lontana dal mondo ideologicamente e storicamente considerato dei “diversi” o addirittura dei “reietti” quale quello dell’arte.
È dunque urgente per il curatore mettere in discussione modelli già largamente esplorati e cercare in tutti i modi di trovare sempre un pubblico nuovo e potenzialmente raggiungibile per creare un incontro.
Come mai avete scelto la notte?
M.N.: Nata da un’esigenza funzionale per le nostre vite e vittime anche del suo fascino, io e Sara abbiamo scelto di lavorare nella notte per tutti i nostri progetti, cosa che influenza sicuramente la curatela ed è una presa di posizione. La notte è per noi simbolo di emancipazione e democrazia: si può essere chi si vuole. Questo è importante perché crediamo che permetta all’arte di elevarsi ancora di più. Il nostro ruolo come curatrici è quello di indagare l’ignoto e spingere il fruitore di arte e dei locali in cui entriamo a riflettere e porsi dei nuovi quesiti. Il sentimento di stranezza inaspettata, imprevista che si prova entrando nei luoghi che ospitano le nostre mostre è qualcosa che è per noi insostituibile. Grazie alle connessioni che si creano mescolando diversi pubblici abbiamo avuto modo di approfondire e scoprire noi stesse le esigenze di tutte queste diverse realtà che fanno parte della vita autentica di tutti i giorni.
Inoltre, parlando sempre del ruolo del curatore, sono convinta che mettere se stessi in prima linea sia essenziale per la riuscita di una mostra o di un progetto curatoriale. Io e Sara ad esempio, dopo la trilogia sul corpo, Look at Me, siamo state le protagoniste di un’intervista molto intima, uscita su Made in Mind e curata da Forme Uniche, in cui ci è stato chiesto di posare nude. Si trattava di una citazione del pezzo di Frigidaire su Achille Bonito Oliva e avevamo come fotografa Tarin. Siamo state talmente coinvolte dal progetto che è stato spontaneo accettare e non provare alcun tipo di imbarazzo, sottoponendoci così ad una coraggiosa imposizione su riflessioni legate al nostro modo di fare curatela.
I consigli di Sara Van Bussel e Manuela Nobile
C’è un progetto recente di una giovane figura curatoriale che ammirate? Quale?
S.V.B.: Io ammiro molto Giorgia Ori, che ha costruito da sola una residenza d’artisti che è anche molto altro: Pianeta Fresco, nella campagna di Parma. È un posto dove incontrarsi e creare, dal lavorare la ceramica al fare yoga, all’imparare a dipingere o ascoltare musica, il progetto di Giorgia mira a essere luogo di comunità, di coltivazione, di scambio, con chi abita la zona, chi viene da fuori, con gli animali e le piante stesse che la formano. Un mondo a sé, davvero prezioso.
Un secondo progetto che trovo molto interessante è In-ruins di Maria Luigia Gioffrè, che mette in dialogo l’archeologia con l’arte contemporanea nella forma di una residenza d’artisti nel Sud Italia, indagando il rapporto tra tempo e materia e il legame con il territorio.
Qual è una delle mostre che vi ha colpito maggiormente tra quelle viste nell’ultimo anno? Perché?
M.N.: Seguiamo entrambe con piacere il lavoro di Jacopo Benassi perché ci interessa la sua cruda azione performativa e l’inclusione del pubblico. Una mostra a cui invece non sono ancora stata ma che attira molto la mia attenzione è Con i miei occhi di Chiara Parisi e Bruno Racine del Padiglione della Santa Sede alla Biennale, in cui i visitatori sono accompagnati dalle detenute del carcere. Un progetto ambizioso e coraggioso che crea connessioni e dà speranza in cui il cellulare si lascia fuori nel rispetto di chi vive quel luogo.
Guardando la storia dell’arte, c’è una corrente, un movimento, un artista o un art worker del Novecento al quale vi sentite particolarmente vicini?
S.V.B.: Che domanda difficile! Ci sono due persone che mi viene da citare, entrambi uomini per altro, appartenenti al mondo dell’arte ma con due ruoli diversi. Il primo è un artista, Felice Casorati. L’ho sempre sentito particolarmente vicino, ammiro il modo in cui sia riuscito a parlare del quotidiano in modo sobrio e sincero e al contempo, forse proprio per questo, estremamente profondo. Il secondo è Seth Siegelaub, che stimo invece per la profondità della ricerca: collezionista e ricercatore, aveva un’intelligenza acuta e una capacità di dettaglio come non credo di avere mai visto nell’ambito prettamente artistico.
Quali sono i libri che hanno maggiormente segnato il vostro percorso professionale o personale e perché?
S.V.B.: Gli autori che mi hanno formata e che ancora ad oggi plasmano la mia ricerca sono senza ombra di dubbio Walter Benjamin, Timothy Ingold, Henri Bergson e Aby Warburg.
In particolare saggi come On weaving a basket di Ingold, il libro Materia e Memoria di Bergson e in generale gli scritti di Benjamin hanno plasmato la mia ricerca portandomi a riscoprire la concezione di ‘tempo.’ La riflessione sul tempo, soprattutto se in relazione alla materia, credo sia la dicotomia alla base della pratica estetica e artistica in toto.
Anche Against Interpretation di Susan Sontag, che ho ripreso in mano recentemente, rispecchia una serie di concetti sulla percezione dell’opera d’arte – in particolare l’importanza dei sensi nel processo di fruizione – che trovo rilevanti e senza tempo.
Viola Cenacchi
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