Un ritratto di Claire Fontaine. Intervista con Anita Chari
Il nuovo libro di Anita Chari su Claire Fontaine si presenta come una guida per comprendere il collettivo artistico che, recentemente, si trova sulla bocca di tutti. Ne parliamo con l’autrice
Negli ultimi anni, da Sanremo 2023 alla Biennale di Venezia 2024, fino alle collaborazioni con grandi marchi della moda, il collettivo Claire Fontaine ha raggiunto maggiore visibilità internazionale. Ne parliamo con Anita Chari, critica d’arte e studiosa del collettivo, nonché autrice del libro A User’s Manual to Claire Fontaine, uscito recentemente per i tipi di Lenz Press.
Intervista ad Anita Chari
Chi rappresenta Claire Fontaine per te e quale significato attribuisci alla loro identità artistica?
Quando ho incontrato Claire Fontaine per la prima volta nel 2011 a New York – in occasione della loro mostra Working Together da Metro Pictures, all’indomani delle proteste di Occupy Wall Street – stavo combattendo con un certo senso di disillusione nei confronti del progetto della teoria critica. Lavoravo al mio primo libro, A Political Economy of the Senses, che esplorava la relazione tra estetica e politica nel contesto del neoliberismo. Avvertivo, tuttavia, che il linguaggio della teoria critica, i concetti che utilizzava per trasmettere la necessità di trasformare il mondo e noi stessi, erano impoveriti, fragili, s’incrinavano sotto il peso della propria astrazione; che i modi in cui parlavamo di politica, percezione, trasformazione, erano intrappolati in uno spazio rarefatto che non sarebbe mai stato in grado di toccare le dimensioni più affettive della vita necessarie per creare un cambiamento politico.Quando ho visto per la prima volta l’opera America (burnt/unburnt), ho capito che Claire Fontaine stava affrontando i miei stessi problemi, e che “lei” aveva trovato un linguaggio visivo per penetrare il torpore del presente. Scrivendo su di lei, volevo imparare questa metodologia sperimentale che l’artista stava sviluppando, contaminarmi con i suoi gesti artistici; e defunzionalizzarmi, partecipare allo “sciopero umano” come Claire Fontaine ci provoca a fare. Così, non ho affrontato questo progetto con il distacco del teorico o del critico: il libro è stato uno spazio d’incontro emerso da un’indagine profondamente personale.
Cosa ti ha affascinato della pratica artistica di Claire Fontaine?
Nel dichiararsi un’artista “readymade”, Claire Fontaine compie un gesto artistico e concettuale scandaloso e impossibile nel contesto del mercato dell’arte contemporanea, così come nella scena intellettuale: dichiara che l’arte è una pratica del e per il comune, non riguarda un artista/opera d’arte feticizzato/a che accumula valore sul mercato. Lei defunzionalizza il ruolo dell’artista e dell’opera d’arte. Intesa in questo modo, l’arte è una pratica di coltivazione di strumenti per la sopravvivenza e la cura nel mezzo del deserto del presente, dove i bisogni umani sono subordinati all’accumulo di profitto o capitale sociale.Con questo gesto, Claire Fontaine sottolinea non la novità ma l’impossibilità del nuovo in una situazione politica che trasforma la nostra capacità di creare contro di noi. Piuttosto che la produzione, essa abbraccia la riproduzione, una pratica di cura per il mondo e per le relazioni.Questa è una proposta artistica ma, come puoi vedere, va ben oltre la sfera dell’arte.
L’impegno sociale di Claire Fontaine
Oltre a essere profondamente politico, come descriveresti il lavoro di Claire Fontaine in termini di impatto culturale e artistico?
Il titolo della Biennale di Venezia 2024 è tratto dalla serie di Claire Fontaine Stranieri Ovunque. Forse, poiché l’artista lavora così tanto con le questioni dell’uso, dell’abuso (quello che io chiamo defunzionalizzazione) e del lavoro, è appropriato che il titolo della Biennale sia esso stesso una sorta di abuso dell’opera d’arte: rende l’opera un titolo, uno slogan. Stranieri Ovunque mette in risalto tutte le complessità della biennale di quest’anno, che cerca di decentrare e provincializzare (per usare il termine del teorico postcoloniale Dipesh Chakrabarty) un familiare percorso storico-artistico eurocentrico e di nutrirlo con la prospettiva da sempre presente degli artisti del Sud Globale. Il titolo di Claire Fontaine viene utilizzato sia per supportare questa genealogia alternativa che per segnarne la resistenza (il titolo è tratto da un gruppo di sinistra di Torino ma imita anche l’isteria xenofoba globale che sentiamo intorno a noi). Questa capacità chiasmatica mostra il potere della loro pratica, che evidenzia ambivalenza, estraniamento, autocontraddizione.
Un altro esempio?
Ciò è evidente anche nell’apparizione di un’opera di Claire Fontaine al Festival di Sanremo 2023 – la stola dell’influencer Chiara Ferragni con le parole “Pensati Libera” – nonché nelle sue collaborazioni con Maria Grazia Chiuri e Dior, che complicano la passerella di moda con dichiarazioni antipatriarcali del femminismo degli Anni Settanta, rendendo i modelli in sfilata esemplari di bellezza ready-made. Forse la più potente memoria recente è il contributo di Claire Fontaine al Padiglione della Santa Sede all’attuale Biennale, che espone due opere all’interno di una prigione femminile, come una forma di poetica risuscitazione del contatto umano, in uno spazio che cerca di eliminarlo. La capacità di Claire Fontaine di portare tale complessità concettuale e impatto affettivo nei luoghi principali della cultura e dell’arte è unica.
Il libro di Anita Chari su Claire Fontaine
Come hai sviluppato la tua relazione con Claire Fontaine e in che modo questa interazione ha influenzato il tuo lavoro?
Questo libro è una coalescenza di anni di conversazioni tra me e gli artisti, oltre che del mio impegno con le mostre di Claire Fontaine per un periodo di più di un decennio. Era importante per me che l’incontro fosse tattile, incarnato; in ogni modo dialogico, con le opere d’arte stesse e con gli artisti. Il libro è stato acceso da un impulso femminista a smantellare il paradigma soggetto-oggetto nella creazione della conoscenza. Come ho scoperto durante la scrittura, a volte ha rispecchiato un processo che Carla Lonzi aveva utilizzato nel suo Autoritratto, trascrivendo i dialoghi che aveva con i suoi amici artisti.
Chiamarlo “autoritratto” significa capire che l’esplorazione dell’artista coincide con un’esplorazione di sé stessi. Ho portato nella conversazione il mio background come praticante somatica e teorica critica, il che mi ha permesso di fare domande molto diverse da quelle che un critico d’arte o uno storico dell’arte farebbero sul lavoro di Claire Fontaine. L’impatto di questo incontro con Claire Fontaine sul mio lavoro è stato quello di rafforzare i miei impulsi sperimentali come scrittrice e critica. Mi ha aiutato a comprendere come la performatività del linguaggio e dell’immagine possa essere utilizzata per destabilizzare le dinamiche di potere tra artista e spettatore, critico e lettore; per puntare oltre la mente, per permettere all’opera d’arte o al testo di parlare direttamente a qualcosa di più vitale, più esistenziale, all’interno del pubblico.
Il tuo libro nasce da anni di ricerca intensa. Ci sono aspetti del loro lavoro o della tua analisi che, inizialmente, trovavi difficili da comprendere e che hai scoperto nel corso del tempo?
Uno dei temi che attraversa la mia lettura di Claire Fontaine è la relazione tra embodiment (incarnazione) e percezione della dominazione nella società. Si tratta di un tema centrale nel suo lavoro, dai confronti con il femminismo italiano e l’orgasmo femminile alle dinamiche dell’autoritarismo nel discorso di figure come Donald Trump. Penso che mi ci sia voluto del tempo, contemplando molte delle sue opere, per vedere che Claire Fontaine fosse interessata a coinvolgere la percezione incarnata, non solo come argomento ma come processo. È qui che la mia prospettiva di teorica del corpo si è collegata con il lavoro di Claire Fontaine, diventando un punto di contatto stimolante. Discutiamo di questa connessione nell’ultimo capitolo del libro, un dialogo tra me e l’artista. È anche il tema del secondo capitolo del libro, che sviluppa la nozione di “concettualismo affettivo”.
Progetti futuri?
Sto lavorando a un romanzo che esplora l’esperienza di una famiglia d’immigrati indo-americani alle prese con l’amore, la morte e il divario tra due mondi. Sto inoltre lavorando a un progetto che esplora il lavoro somatico e le pedagogie che ho sviluppato nelle carceri americane nell’ultimo decennio. Infine, sto svolgendo una ricerca sul lavoro dell’artista Arthur Jafa.
Arianna Rosica
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