Cosa significa collezionare fotografia vernacolare? Intervista a Peter J. Cohen
Decine di migliaia di fotografie che immortalano momenti quotidiani e persone comuni: quella di Peter J. Cohen per la fotografia vernacolare è una vera e propria passione, tanto che, ad oggi, è uno dei più grandi collezionisti di questo genere negli USA
Nello studio di Peter J. Cohen nell’edificio al Greenwich Village di New York, che nel 1899 era un magazzino, trasformato poi in fabbrica di giocattoli e solo negli Anni Settanta in unità abitative, le scatole di cartone dello stesso formato si alternano nere, blu, rosse e arancio – impilate una sull’altra – definendo visivamente uno spazio che è fisico e mentale. L’indicazione del soggetto sull’etichetta esterna, ovvero del contenuto di ogni singola scatola, demanda alla categoria l’ordinamento nel suo insieme. Tutto sotto controllo finché, sollevato il coperchio della singola scatola, ecco affiorare in tutto il suo slancio più spontaneo un senso di sorpresa e curiosità infinita: l’irrazionale voracità del desiderio di continuare a guardare, osservare, studiare, cogliere i dettagli e confrontarli, creare collegamenti, formulare ipotesi, lasciando che dal caos di quelle vecchie fotografie anonime prenda vita un immaginifico e caleidoscopico “album di famiglia universale” in versione snapshot e vernacolare che attraversa uno spazio temporale compreso tra la fine del XIX secolo e l’inizio del 2000 con l’avvento del digitale. Con oltre 60mila immagini fotografiche collezionate e catalogate in 130 categorie, Cohen (nato a Chicago, investment manager che vive a New York) è uno dei più grandi collezionisti di fotografie vernacolari degli Stati Uniti, donatore di una cospicua parte della sua collezione ad una sessantina di istituzioni museali del paese, tra cui MET-Metropolitan Museum of Art e MoMa di New York, MFA Boston, The Art Institute of Chicago, The Morgan Library e SFMoMA.
Intervista a Peter J. Cohen
Quali sono stati i primi passi nella creazione di quest’enorme collezione di fotografie vernacolari?
Ho sempre collezionato arte, fin da quando ero bambino. Nel 1957 andai ad una fiera d’arte a Winnetka, nell’Illinois, e usai 4 dollari dei miei per acquistare un disegno di un professore dell’Università di Chicago che conservo ancora. Collezionare era qualcosa che avevo dentro. Ma più seriamente, negli Anni Sessanta iniziai a comprare stampe d’arte moderna e probabilmente anche delle fotografie ma non vernacolari. Intorno agli Anni Settanta acquistai delle fotoincisioni pubblicate in Camera Work e da allora continuai con le fotografie di noti fotografi, così come di autori che non conoscevo e di cui, in parte, non ho più sentito parlare.
Cosa l’attraeva di quelle immagini?
Ognuna mi parlava in maniera diversa. All’inizio acquistavo solo fotografie in bianco e nero. Fondamentalmente compravo quello che mi piaceva e che potevo permettermi, vintage di Edward Weston o del Barone Adolph de Meyer. Quando scoprii Camera Work mi sarebbe piaciuto comprare una serie intera di fotoincisioni, ma allora erano troppo costose. Però un po’ alla volta ho acquistato quasi tutte quelle dei nudi.
Peter J. Cohen, tra gallerie e mercatini delle pulci
Solitamente dove acquistava le fotografie?
Quando ho acquistato la foto del Barone de Mayer ero studente al college, a Washingon DC c’era Harry Lunn, figura leggendaria nel mondo della fotografia per aver incentivato il riconoscimento della fotografia come arte e oggetto da collezione. Nel 1975, poi, mi trasferii a New York dove c’erano molte più gallerie dedicate alla fotografia, anche se quel mondo era ancora piuttosto ristretto. Comprai una foto a colori di Stephen Shore alla Light Galley e anche delle foto di Joel Meyerowitz probabilmente alla Witkin Gallery. Poi ho avuto due figli, due ragazzi che ora sono sulla quarantina, e per almeno un decennio gli acquisti sono stati veramente pochi. Ho ricominciato alla fine degli Anni Ottanta; presi opere di Susan Derges da James Danzinger, poi mi interessai sempre di più alle opere fotografiche realizzate senza la macchina fotografica. Nella mia collezione sono entrate le opere di Adam Fuss e di Marco Bruer, di cui ho più pezzi rispetto a tutti gli altri perché amo particolarmente il suo lavoro, presi anche opere di Wendy Small da Morgan Lehman e, tra le altre quelle di Alison Rossiter e Chuck Close.
Le piaceva anche fotografare?
Non mi è mai piaciuto fotografare neanche quando ero piccolo. Per un breve periodo, quando i miei figli erano bambini, usavo una polaroid SX-70. Mi piaceva la gratificazione immediata dell’idea della polaroid, ma non sono mai stato un fotografo. Mi è sempre interessata l’osservazione degli oggetti, della gente e della vita attraverso l’obiettivo fotografico, ma amo le fotografie degli altri.
Dal punto di vista di un collezionista, qual è il confine tra passione e ossessione?
Bella domanda! Ho una bella passione per le mie due collezioni più grandi, quella delle foto realizzate senza la macchina fotografica e delle fotografie istantanee e vernacolari. Eh sì, ho la passione ma anche l’ossessione per entrambe, soprattutto dichiaratamente per quella di foto vernacolari che è iniziata un giorno in un mercatino delle pulci. Un mio amico stava guardando dei vetri italiani ma c’era una donna che non riusciva a decidersi, io mi stavo annoiando così mi voltai e vidi una donna che vendeva istantanee in un contenitore di plastica. Ne comprai cinque. Era il 1993. Quando, tornato nel mio appartamento, riguardai quelle immagini mi dissi che non sapevo proprio perché le avessi acquistate, ma che comunque sarei tornato lì la settimana successiva. È andata così e va avanti da anni.
Continua a frequentare sempre quel mercatino delle pulci di New York?
Sì, ma poi ho cominciato a comprare su eBay e Etsy. All’epoca viaggiavo oltremare abbastanza regolarmente e cercavo materiale anche nei paesi che visitavo, soprattutto in Europa ma anche in Sudamerica e un paio di volte sono stato in Asia. Anche se è stato veramente difficile trovare qualcosa in Sudamerica e soprattutto in Cina o nelle Filippine dove nessuno collezionava questi materiali.
La pratica collezionistica di Peter J. Cohen
Parlando dell’archivio è ordinato e catalogato, come vediamo dall’insieme di scatole che contengono le immagini suddivise per categorie…
Per un decennio non c’è stata alcuna catalogazione, tornavo dal flea market e mettevo tutto nelle scatole di cartone o nelle scatole delle scarpe. È stata la mia famiglia a esortarmi a fare qualcosa. Hannah Lipson, amica di mio figlio più piccolo, mi ha aiutato a mettere ordine nell’insieme di 10mila fotografie che avevo all’epoca. Lei ha strutturato l’archivio in categorie per renderlo accessibile. Nel frattempo la collezione è cresciuta in maniera incredibile e ad un certo punto i miei figli mi hanno chiesto cosa farci. Nessuno di loro è interessato all’intera collezione, entrambi hanno la propria famiglia, i figli e la fotografia non è la loro priorità. Così abbiamo cominciato a pensare a donazioni da fare ai musei e con l’aiuto di amici artisti e dealer abbiamo contattato direttori e curatori.
Per esempio quali?
Nel 2007 ho fatto la prima donazione di materiali al MoMa. All’epoca Peter Galassi era capo del Dipartimento di Fotografia e Susan Kismaric, persona meravigliosa, mi ha aiutato a selezionare le foto. Loro due insieme hanno visionato migliaia di immagini scegliendone circa trecento. Ero lusingato di donare quel materiale al MoMa, soprattutto quando Peter mi disse, dopo aver trascorso i primi 90 minuti guardando fotografie, che quel giorno non aveva alcuna intenzione di venire da me, era stato il suo staff ad insistere. Con Susan scelse un primo nucleo di immagini, poi tornarono più volte e trovarono pezzi che potessero essere d’interesse per il museo. Da un museo all’altro le donazioni si sono ampliate ma è stato, ed è tuttora, un grande lavoro. Bisogna scrivere lettere, invitare persone a vedere la collezione, dedicargli del tempo e magari convincerli ad acquisire i materiali. Abbiamo anche realizzato alcune piccole pubblicazioni sulla collezione che, insieme ai miei assistenti, continuiamo a inviare quando prendiamo contatti con nuovi musei. L’unico libro di cui sono autore è Snapshots of Dangerous Women, pubblicato nel 2015 con un’introduzione di Mia Fineman, in cui vengono mostrate foto realizzate tra gli Anni Trenta e Cinquanta di donne toste e ribelli che appaiono divertirsi molto nel mostrarsi «pericolose».
È in contatto anche con altri collezionisti di fotografie vernacolari?
Ho alcuni amici che collezionano fotografie vernacolari, tra cui Robert E. Jackson che vive tra Washington e Seattle (la prima mostra dedicata alla sua collezione, The Art of the American Snapshot: 1888-1978, è stata organizzata nel 2007 National Gallery of Art di Washington – NdR) e qualcuno anche qui a New York. Molti giovani si stanno interessando alle fotografie vernacolari, quanto alle artiste e artisti che le utilizzano nel loro lavoro, stando a una ricerca fatta dai miei assistenti sono centinaia ovunque nel mondo. Spesso metto a disposizione le immagini della mia collezione ad autori per la pubblicazione dei loro libri. Gliele presto, loro le scansionano e poi me le restituiscono. Qualcuno è interessato alla danza o ai fari, alla luna, alle fotografie scientifiche o alle diverse diaspore.
Nella sua collezione sono presenti anche dagherrotipi, ambrotipi o ferrotipi?
Non molti, fondamentalmente si tratta di foto dal 1900 al 2000. Ce ne sono alcune del 1888, quando George Eastman brevettò la prima macchina fotografica portatile Kodak, perché sono collegate alla storia delle snapshots (istantanee). Quando, nel 1900, la Kodak Brownie fu introdotta nel mercato al costo di 1 dollaro, la fotografia divenne accessibile quasi a tutti. Eastman s’impegnò moltissimo per abbassare i prezzi ed espandere il mercato, solo nel 1905 negli Stati Uniti furono prodotte miliardi di immagini!
Manuela De Leonardis
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