Luca Lo Pinto e il museo MACRO di Roma. Intervista di fine mandato al direttore uscente
Una lunga chiacchierata sul ruolo del museo nel presente, sull’importanza delle idee, sulle possibilità di fare sperimentazione oggi. Contro la cultura di nicchia e per una valorizzazione dei linguaggi contemporanei. A partire dal modello MACRO, che ora va incontro a un futuro incerto
Con la mostra Post Scriptum. Un museo dimenticato a memoria, si chiude il mandato alla direzione artistica del MACRO di Luca Lo Pinto (Roma, 1981), che in cinque anni – a partire dal 2020, grazie al prolungamento in 3+2 dell’incarico – ha trasformato il polo romano per l’arte contemporanea di via Nizza, di proprietà comunale ma gestito dall’azienda Palaexpo, in un museo sperimentale fondato sulle idee, propiziandone la rinascita. Il suo Museo per l’Immaginazione Preventiva ha messo in discussione i limiti e i confini dell’istituzione, rispondendo alle esigenze di uno spazio (lo storico stabilimento di Birra Peroni al quartiere Trieste, ampliato da Odile Decq) che poneva specifiche difficoltà, ripensando il rapporto con gli artisti e il pubblico, cercando di superare la precarietà gestionale che ha accompagnato il MACRO dai suoi albori, ventidue anni fa. Ora è il momento di riflettere su ciò che è stato – con una programmazione imponente e diversa, che ha proiettato il museo sulla scena internazionale – e immaginare ciò che sarà (il bando che cerca il nuovo direttore chiede un progetto culturale triennale, fondato su accessibilità, sperimentazione e partecipazione). Lo facciamo con una lunga chiacchierata con il direttore uscente.
Intervista a Luca Lo Pinto. Il modello MACRO
L’obiettivo dichiarato, all’inizio del mandato come direttore artistico, era quello di pensare e presentare il MACRO secondo la metafora di un magazine, articolato in rubriche molteplici che indagassero l’idea della mostra. Quanto e come è stata percorsa questa direzione rispetto alle intenzioni originali?
L’aspetto prioritario era portare avanti con coerenza e continuità il progetto iniziale: tra avere un’intuizione e applicare un’idea, c’è differenza. Era una grossa sfida, c’era una grande tensione positiva nel provare a realizzare qualcosa di molto complesso viste le condizioni oggettive, per restituire un’identità molto specifica al museo, in un tempo ridotto. Il tempo che normalmente servirebbe per proporre un modello di museo diverso da quello classico qui non c’era. Dunque si partiva con l’idea di far correre questa macchina a un ritmo serrato.
E dove si colloca oggi il MACRO nel processo di evoluzione e rinnovamento del museo come centro di produzione e dibattito culturale? Possiamo parlare di un modello?
Se il Macro sia diventato un modello non lo so e non sta a me dirlo. Quando mi sono messo davanti al problema di come relazionarci a questo museo non ho ragionato con l’idea di essere a Roma, o in Italia, ma in senso assoluto. Il museo da una parte offre agli artisti un’occasione di visibilità e spesso maggiori risorse economiche, dall’altro è limitante perché poggia su tanti compromessi che limitano la libertà di espressione. Io volevo immaginare un museo ispirato dagli artisti e pensato per loro, fin dal nome e nell’approccio: molte delle istanze che hanno delineato l’identità del MACRO nascono dal guardare e mettere insieme la pratica degli artisti, dal provare a iniettare un approccio all’istituzione che spesso è più vicino a quello degli artisti.
Dunque una forma di sperimentazione museale fondata sulle idee, come dichiara il nome di Museo per l’Immaginazione Preventiva.
Sì, ma in un contesto fattivo. Il MACRO si è autointerrogato in maniera onesta, non con la retorica dell’istituzione che si chiede cos’è un museo. Per me il museo è legato al concetto di Storia con la S maiuscola: per un pubblico generalista fa da filtro rispetto a una produzione culturale fatta in un arco temporale esteso, e spesso tende ad avere una voce affermativa e didascalica (“Questa è l’arte di oggi”, dice). Invece si può avere altro rispetto all’interpretazione del museo come grande romanzo storico, gli si può togliere l’arroganza di raccontare una storia singolare, facendo in modo che diventi esso stesso mostra, cioè una storia che è una possibilità tra tante. Il risultato è una condivisione orizzontale di riflessioni e temi, con chi partecipa alla loro produzione e con chi vive il museo.
Il MACRO e le relazioni. Gli artisti e il pubblico
Nello sviluppo di questo processo, hai evidenziato la centralità degli artisti. Come (se) pensi sia cambiato il loro rapporto con il MACRO?
Tutti gli artisti hanno riconosciuto che, se da una parte non potevamo garantire le risorse economiche di un grande museo, dall’altro qui c’era un gruppo di lavoro, pur piccolo, che stava dalla loro parte. Gran parte della programmazione si è basata su mostre personali, perché per me è importante condividere con chi visita il museo la voce degli artisti il più possibile. Peraltro non limitandoci ad accettare che la mostra sia un oggetto definito e chiuso, ma una materia sensibile che ha bisogno di cura nell’essere presentata, osservata e conservata. Nel caso del MACRO, avendo ragionato sui formati, l’artista non solo è invitato a fare una mostra, ma a rispondere con un approccio più sperimentale. Qui anche gli artisti che normalmente non ragionano sul linguaggio di una mostra si sono sentiti accolti all’interno di una cornice che li ha spinti a osare.
Dall’altro lato c’è il pubblico. Com’è cambiato? Di certo c’è stata una crescita di attenzione…
Abbiamo chiesto al pubblico di confrontarsi con una programmazione molto ricercata, fatta di nomi a volte non conosciuti neanche dagli addetti ai lavori, e caratterizzata dalla compresenza di linguaggi oltre le arti visive, dal graphic design alla musica sperimentale, al publishing. Anche il pubblico è stato invitato a entrare in una zona di scoperta: oggi siamo abituati a confrontarci con cose che già conosciamo, frequentare luoghi in cui ci ritroviamo con persone simili; qui volevamo stimolare l’incontro con un luogo in cui non vai perché lo conosci, ma perché senti che lì puoi scoprire cose nuove.
Un invito accettato e compreso?
Per me il pubblico ha recepito questa intenzione. La mia soddisfazione più grande è sapere che presentare degli autori che fanno ricerca non corrisponde a rivolgersi a una nicchia. Credo molto nell’intelligenza delle persone, la capacità del museo sta nel mediare, nel riuscire a presentare una ricerca in modo che riesca a parlare a un pubblico molto ampio e variegato senza togliere nulla della sua complessità.
Ragionando peraltro su una compresenza di possibilità che chiama a una certa responsabilità di scelta anche chi fruisce della programmazione…
Spesso c’è, nella produzione culturale, la volontà di isolarsi in nicchie. Per me lo sforzo più grande è riuscire a presentare ricerche molto diverse: alle persone non per forza deve piacere qualcosa pensato per essere semplice. Si trattava, quindi, di cambiare il modo in cui funziona l’offerta culturale, e questo ha richiesto un impegno totalizzante, che ha generato una programmazione molto ampia, di 65 mostre e tante attività, in dialogo continuo con gli artisti.
Il museo come magazine. Formati, equilibri, armonie
Anche a costo di rischiare di fare “troppo”?
Se scegli di presentare più linguaggi in un museo di arte contemporanea, il rischio è quello di forzarli in un contesto che gli sta stretto, senza amplificare l’insieme. Invece, che si tratti della mostra di una poetessa o di un musicista, è necessario che la ricerca trovi il suo suono all’interno del museo. Così le persone entrano all’interno di una partitura pensata per armonizzare: ogni mostra è una nota che partecipa all’insieme, non semplicemente la giustapposizione di cose. Solo così la fruizione diventa uno stimolo da rielaborare, qualcosa che resta impresso anche se non immediatamente compreso. Questo è quello che cerco da spettatore in un’opera d’arte: l’esperienza dev’essere stimolante e appagante senza trasformarsi in intrattenimento.
E come si lavora per raggiungere l’obiettivo?
Non mi interessa la dinamica esperienziale e immersiva, il pensiero deve mantenere la sua autonomia e specificità. Si può lavorare su una comunicazione mirata, per esempio sviluppando un display puntuale e mirato allo scopo. Tutte le mostre allestite negli spazi dell’ex Birreria Peroni, per esempio, le abbiamo pensate come capsule, focus improntati a un formato preciso, seppur variabile, dalla mostra di Salvo che concentrava quasi cento opere nello stesso ambiente e progetti decisamente più contenuti, o dedicati a “non oggetti”.
Infatti, nel confrontarsi con il MACRO, non si può fare a meno di “scontrarsi” con il suo spazio peculiare, che da limite è stato trasformato in potenzialità.
Lo spazio è stato determinante, il progetto nasce proprio in risposta a questo luogo inteso come architettura e storia che porta con sé. Questa idea non poteva essere applicata altrove. La stessa intuizione del magazine è nata dall’osservare la serialità di stanze e la continuità di spazi identici che ci si presentano in questa disfunzionalità architettonica unica nel suo genere, elemento distintivo del MACRO. La struttura di un magazine è funzionale alla ripetizione ed è vicina a come funziona una mostra, dove c’è una scrittura in uno spazio di oggetti, non oggetti e linguaggi, pensata e proposta in modo associativo anziché lineare, al contrario di un libro. Nel magazine ogni sezione ha senso nell’insieme, ma può essere estrapolata e vivere di vita propria. Il MACRO è stato pensato come una mostra di tante mostre al suo interno.
Quale futuro per la collezione del MACRO?
In parallelo si è lavorato sulla collezione del museo. Com’è cambiata rispetto a quando ne hai assunto la direzione artistica? Come si è lavorato per valorizzarla attraverso il progetto Retrofuturo?
Il MACRO è nato come Galleria comunale, architettura e collezione sono ancora oggi di proprietà della Soprintendenza. Dopo un investimento iniziale, precedente al mio arrivo, il budget per l’acquisto di opere si è ridotto quasi a nulla: in generale i musei non hanno più budget per comprare, spesso si ricorre a donazioni di privati o fiere, che per me non sono il contesto ideale. Io volevo arricchire la collezione in modo coerente rispetto all’impianto generale, puntando sul dinamismo. Retrofuturo è partito da un nucleo di opere cui se ne sono aggiunte altre progressivamente, come fosse una mostra collettiva che non aveva un tema fisso: ogni volta che entrava una nuova opera, il tema cambiava. Ho scelto di puntare solo su artisti italiani e giovani che raccontassero un paesaggio, non “il meglio di”, in rappresentanza di tutta la Penisola. E l’80% delle opere sono state pensate apposta per il contesto della collezione, che è qualcosa di molto inusuale e prezioso.
Cosa ne sarà ora?
Il rammarico è che questo sforzo sarà vanificato, perché la Soprintendenza non ha accolto la possibilità di tenere le opere. Gli artisti erano d’accordo nel concederle in comodato a lungo termine, ma la proposta non è stata accettata, e quindi le opere torneranno a loro quando si chiuderà l’esperienza del Museo per l’Immaginazione Preventiva. Ci tenevo che la collezione fosse accolta e mantenuta, ma chi decide ritiene non ci siano le condizioni per farlo.
Sul futuro del MACRO di roma
Non a caso, il tallone d’Achille dal MACRO, in passato, è stata la mancanza di continuità gestionale e amministrativa. Tu sei riuscito a proporre una visione progettuale molto identitaria, sostenuto dalla fiducia di Palaexpo. Qual è il tuo auspicio per il futuro del museo?
Il mio auspicio è che non si disperda ciò che è stato conquistato, cioè un museo che oggi può contare su una sua comunità, che è molto seguito a livello nazionale ma anche internazionale. Che il MACRO mantenga, a prescindere da chi verrà e da cosa si farà, la sua posizione. Sulle scelte che si faranno non sono io a dover e poter rispondere.
I musei dall’esterno sembrano possenti e monumentali, ma invece sono creature fragili. Hanno bisogno di grande cura. Soprattutto in un momento storico in cui le istituzioni culturali sono in crisi è necessario avere dalla politica una visione chiara, un sostegno: questo è il punto nodale.
Tanto più al MACRO, con tutte le precarietà del caso…
Il mio progetto qui è nato dall’esigenza di trovare un’identità per un museo che ne aveva bisogno. Non c’è stata forzatura, ma serviva un’onda d’urto per plasmare un’istituzione che non aveva mai avuto una sua autonomia reale. Prima di me il MACRO aveva scontato gli umori della politica, non c’era mai stata una continuità, non potevo limitarmi a fare un programma di mostre, non sarebbe stato utile. La risposta è andata oltre le aspettative, anche considerando le risorse limitate. Abbiamo dimostrato che si può puntare su un livello di ricerca alta portando al museo anche persone che in genere non lo frequentano, a partire dai giovani.
Speriamo che tutto questo non sia vanificato anche perché lo sforzo è stato importante, e la possibilità di portare avanti un modello del genere, con questa libertà, è molto rara, non solo in Italia. L’azienda Palaexpo, da quando sono entrato, mi ha lasciato questa libertà, poi i meccanismi della politica in generale sono altri, e qui bisognerà sempre affrontare il tema della precarietà.
E a te, che per seguire il progetto sei tornato a Roma, cosa resterà di quest’esperienza? Lavorare al e per il MACRO ha modificato la tua visione curatoriale?
Il MACRO è stato per me provare a portare dentro un dispositivo complesso e istituzionale un’attitudine curatoriale e sperimentale che mi ha sempre interessato. Rapportarmi con l’idea di storia, sperimentare sui formati e sui linguaggi, associare ricerche apparentemente distanti e molto diverse. Sono stati 5 anni portati avanti a un ritmo talmente frenetico che ci vorrà un po’ di distanza per capire bene cosa abbiamo fatto. Ma tutti sentiamo di aver fatto qualcosa di speciale.
Il “museo dimenticato a memoria”
L’ultima mostra del tuo mandato, Post Scriptum. Un museo dimenticato a memoria, è la naturale conclusione di questo percorso.
Volevo rendere evidente che abbiamo esplicitato le intenzioni con i fatti. L’intuizione originale era trasformare il museo in progetto curatoriale ed espositivo: abbiamo aperto cinque anni fa con la mostra Editoriale, poi la programmazione si è articolata proprio con una struttura editoriale, che ora smantelliamo per chiudere con una mostra che è specchio della prima, nuovamente una collettiva che occupa tutto lo spazio. Non si tratta di un resoconto, o di qualcosa di nostalgico, ma di un’ulteriore riflessione sul museo, sulla mostra, sulle possibilità di immaginazione che si possono concretizzare. Voglio guardare avanti. Un museo fondato sull’idea può esistere: le idee non costano nulla, è il grande insegnamento degli artisti della generazione passata, che hanno operato quando l’arte non era l’industria culturale che è oggi.
Quindi cos’è il “museo dimenticato a memoria”?
Un atto di amore verso il museo, non certo un anti-museo. Qui non si è lavorato con spirito antagonista, però per creare qualcosa di altro si deve fare lo sforzo di dimenticare il conosciuto, uscire dalla zona di conforto, per poi tornare con nuove possibilità. Abbiamo provato a fare un museo che potesse rispondere alle condizioni del presente, ascoltando ciò che avviene fuori per esserne cassa di risonanza, però mantenendo la distanza per leggerlo e non esserne semplicemente uno specchio. Credo che il museo debba avere una doppia velocità, mantenendo vivo il movimento tra polarità diverse: l’istituzione e la mostra, la storia e le storie, il tempo del presente e il tempo della storia. La sfida è mantenere la complessità, centrando l’armonia. Utilizzo la metafora sonora del tuning: l’impegno per trovare la giusta frequenza, il punto in cui le interferenze spariscono e si raggiunge un livello sonoro pulito.
Le mostre fatte qui hanno sempre ascoltato lo spazio, e anche Post Scriptum è costruita mutuando dal ritmo musicale momenti molto densi e altri più rarefatti.
Il tuo futuro dopo il MACRO?
Sul futuro non so, sono ancora immerso qui dentro, con un legame di amore che va oltre l’impegno. Del resto non mi è mai interessata la dinamica dell’arte come carriera.
Livia Montagnoli
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