Intervista con Bérengère Primat, grande collezionista di arte aborigena

La mecenate franco-svizzera ha creato a Lens / Crans-Montana la Fondation Opale, dedicata a far conoscere l'arte contemporanea dei nativi australiani. L’abbiamo intervistata

Il Leone d’Oro vinto dal padiglione nazionale dell’Australia alla Biennale Arte di Venezia 2024, con l’allestimento dell’artista Archie Moore ispirato all’eredità aborigena, ha fatto crescere l’interesse sull’arte e la cultura dei popoli nativi australiani. A Crans-Montana, in Svizzera, incontriamo Bérengère Primat, la mecenate fondatrice e presidente della Fondation Opale, il principale centro d’arte aborigena contemporanea in Europa.

Intervista a Bérengère Primat

Come è nato l’incontro con una forma d’arte così distante dai canoni occidentali?
È iniziato tutto per caso nel 2002 visitando la mostra Watt, les hommes de loi al Passage de Retz a Parigi. Per me è stata un’emozione molto forte, sono stata toccata dalle tele, dagli oggetti, dalle piccole sculture di cui in realtà non comprendevo granché. Ma in quelle opere ho subito ritrovato una parte di me. È un po’ come quando nelle grotte ti confronti con la pittura rupestre, provi la sensazione di trovarti di fronte ad una prima espressione di umanità.

Da quel momento è nato un interesse che va oltre il semplice collezionismo ma si spinge a investigare la storia e la cultura aborigena.
Fino ad allora non mi ero interessata d’arte, avevo solo viaggiato con i miei genitori che a casa possedevano quadri degli Impressionisti, visitato delle mostre. Dopo poco sono partita per l’Australia, nel Deserto centrale con il curatore della mostra parigina (Arnaud Serval che diventerà suo marito, ndr) per conoscere le comunità da cui provenivano le opere che avevo visto a Parigi. È stata un’emozione profonda scoprirle dal vivo e immergermi in una cultura antichissima, la più antica del mondo con decine di migliaia di anni alle spalle, costruita su un rapporto intenso con la terra e la natura, fatta di canti e di balli.

Ora la sua collezione è di circa 1800 opere, alcune risalgono a quel primo viaggio in Australia?
Sì, ho cominciato ad acquistare subito. Tutti i giorni i membri delle comunità aborigene dipingevano e cantavano: a quell’epoca era molto difficile fare fotografie, oggi molto è cambiato, e acquisire quelle opere era per me come mettere assieme dei souvenir, farmi un album fotografico che mi ricordasse quelle intense esperienze. Sono tutte opere recenti, perché l’arte contemporanea aborigena comincia solo nei primi Anni Settanta, quando si inizia a dipingere in acrilico su legno. Prima erano in gran parte opere effimere legate alle cerimonie. Poi ho cominciato anche a comprare alle aste e da altri collezionisti, ma sostanzialmente la mia collezione si ferma agli Anni Cinquanta, non ci sono pezzi antichi.

Bérengère Primat Photo Olivier Maire
Bérengère Primat Photo Olivier Maire

Come si è sviluppata l’idea di aprire una fondazione dedicata all’arte aborigena contemporanea e soprattutto di scegliere come sede Crans Montana, località montana molto famosa a livello turistico, ma un po’ fuori dalle rotte culturali? Il cantone del Vallese ha circa 350mila abitanti, siamo nel cuore della Svizzera rurale, e le statistiche dicono che siano meno di diecimila i frequentatori abituali di attività culturali.
Abito a Crans Montana da lungo tempo, ho ricordi familiari legati a questa località e, come spesso accade, le cose succedono un po’ per caso. Qui esisteva già la Fondation Pierre Arnaud dove nel 2017 è stata organizzata la mostra Territoire du rêve con molte opere della mia collezione. Al termine dell’esposizione mi venne proposto di acquisire gli spazi, ma in un primo momento dissi di no. Sono partita per l’Australia con i miei cinque figli anche per riflettere e, sia parlando con la mia famiglia sia con le comunità, l’idea è maturata. Un artista indigeno mi ha detto: “Bérengère, le nostre opere sono solo nei musei di etnografia, sarebbe bello avere in Europa uno spazio dove far conoscere la nostra arte contemporanea”. Così ho fatto la scelta ed è nata la Fondation Opale che prende il nome da una pietra che ha un forte valore simbolico nella cultura aborigena.

La nuova ala della Fondazione inaugurata un anno fa con un auditorium, la biblioteca-archivio, gli spazi di stoccaggio per le opere permette ora di organizzare mostre importanti come quella in corso, Rien de trop beau pour les dieux, e cicli di conferenze che invitano la comunità e i turisti a scoprire questi spazi dedicati all’arte.
Organizziamo regolarmente due esposizioni all’anno, cercando di far dialogare l’arte aborigena con l’arte internazionale contemporanea. La mostra più importante è generalmente quella della stagione invernale in cui Crans-Montana registra le maggiori frequentazioni. Un’altra esposizione la allestiamo esternamente con musei svizzeri, come a Ginevra, e collaboriamo con importanti istituzioni europee. A partire da luglio la Tate Modern di Londra dedicherà la prima grande mostra monografica in Europa a Emily Kam Kngwarray (Utopia Sandover, 1910 – Alice Springs, 1996) e noi saremo partner dell’iniziativa con diverse opere. Per il resto io continuo a viaggiare in Australia, almeno una volta l’anno, anche se seguire la Fondazione mi richiede ora più tempo. Abbiamo approfittato della pandemia per avviare un importante lavoro editoriale pubblicando molti libri sull’arte aborigena che merita di essere conosciuta in Europa. Noi cerchiamo di essere la piattaforma di comunicazione per far conoscere una cultura multimillenaria.

La mostra in corso alla Fondation Opale: Rien de trop beau pour les dieux

Per l’esposizione in programma fino al 20 aprile 2025 è stata data carta bianca a Jean-Hubert Martin (Strasburgo, 1944) e agli altri co-curatori Tijs Visser e Georges Petitjean per mostrare la varia creatività che le diverse culture del mondo hanno elaborato per esprimere fede e spiritualità. 

Il tema del rapporto fra religione e arte nelle diverse culture

Sono temi che il curatore francese ha affrontato spesso nella sua lunga carriera che lo ha portato a dirigere la Kunsthalle di Berna, il Museo d’arte moderna del Centre Pompidou e il Musée National des Arts d’Afrique et d’Océanie (contribuendo alla nascita successiva del Musée du Quai de Branly) a Parigi, il Kunstpalast a Düsseldorf e il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Un filone di ricerca che lo ha portato a organizzare mostre emblematiche come Magiciens de la Terre nel 1989 al Centre Pompidou e alla Grande Halle della Villette o, ancora, Altäre (Altari, 2001) e Africa Remix(2004) al Kunstpalast e Arte Religione Politica (2005) al PAC, una riflessione sul ruolo politico che può avere la regione, in particolare in seno alle culture oppresse. “L’arte aborigena è stata importante nella mia scoperta delle espressioni artistiche che vanno oltre il cosiddetto mondo occidentale” racconta Jean-Hubert Martin. “Fino agli Anni Ottanta si arrivava a malapena a parlare di arte dell’Europa Orientale, o di qualcosa che veniva creato in Sud America. Nel 1982 alla Biennale di Sydney ci fu una cerimonia di aborigeni con creazione di dipinti sul suolo: in seno agli artisti nacque una animata discussione sul fatto che si trattasse solo di religione oppure di espressione artistica. Sono poi temi che ho cercato di sviluppare nelle mostre che negli anni a seguire mi sono state affidate“. Martin è conosciuto per aver rimesso in discussione le categorie dell’arte occidentale come metro di giudizio di culture “altre” e sulla necessità di promuovere una visione più inclusiva e globale dell’agire artistico.  

Dagli altari buddisti alle opere di Boltanski, un percorso fra etnologia e arte contemporanea

L’arte è sempre stata un potente modo per esprimere la fede, la gratitudine o la ricerca della trascendenza. Attraverso la scultura, la pittura, la costruzione di altari (la ricostruzione museale di altari appartenenti a varie credenze e religionicostituisce tutta la prima sezione della mostra), canti, danze e rituali i credenti hanno cercato di onorare i loro dei e di connettersi con una realtà spirituale superiore. La mostra, attraverso 3 sezioni e circa 60 opere, suggerisce come queste pratiche, lungi da essere solo reliquie del passato, continuino a essere fonte di ispirazione per l’arte contemporanea. L’esposizione non è organizzata solo su opere di proprietà della Fondazione Opale, ma fa ricorso a prestiti e a nuovecreazioni in situ di artisti aborigeni della comunità di Napperby nel deserto dell’Australia del Nord invitati in Svizzera per l’occasione. Le espressioni artistiche nate dalle tradizioni ancestrali di Africa, Caraibi, Oceania, Asia sono messe a confronto con quelle di artisti contemporanei come Kimsooja (Taegu, 1957), El Anatsui, Sandra Vasquès de la Horra e Christian Boltanski (Parigi, 1944 – 2021) che reinterpretano le forme di devozione in una prospettiva moderna.

Dario Bragaglia

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Dario Bragaglia

Dario Bragaglia

Dario Bragaglia si è laureato con Gianni Rondolino in Storia e critica del cinema con una tesi sul rapporto fra Dashiell Hammett e Raymond Chandler e gli studios hollywoodiani. Dal 2000 al 2020 è stato Responsabile delle acquisizioni documentarie e…

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