Il “Mistico” e i limiti del linguaggio nella filosofia di Stefano Oliva. L’intervista 

Il Mistico e l’esperienza estetica come precondizione della conoscenza. Se ne parla in questa intervista con il docente, ricercatore e autore di libri Stefano Oliva

Professore di estetica; consulente scientifico; ricercatore e autore di libri, Stefano Oliva ha orientato la propria ricerca sull’estetica come filosofia e linguaggio; soffermandosi in particolare su temi come: il Mistico, i limiti e le possibilità del linguaggio, la filosofia di Wittgenstein, il rapporto tra linguaggio e mondo, l’esperienza estetica e la musica. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista. 

Intervista a Stefano Oliva 

In sintonia con le riflessioni di Ludwig Wittgenstein e Simone Weil, hai mostrato che il “Mistico” si potrebbe considerare come una condizione per lo sviluppo delle nostre conoscenze, mettendone in luce il legame con l’esperienza estetica e una filosofia dell’abituale. Quali sono i principali aspetti di questa lettura?   
Verso la fine del Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein inserisce tre proposizioni fulminanti che reimmettono il tema del Mistico, e dunque dei limiti del linguaggio, nel cuore della filosofia del Novecento. Sono rimasto affascinato dal fatto che questo termine, tradizionalmente associato a esperienze spirituali riservate ad anime elette, fosse in realtà l’esito di una costruzione logico-filosofica rigorosa; così come in Weil il misticismo non è alternativo ma convive con una visione del mondo materiale di stampo meccanicista. In entrambi i casi, dunque, il tema del Mistico non ci distoglie dall’esercizio dalla razionalità ma ne rivela la più profonda esigenza di radicare la ricerca del sapere in una condizione avvertita come fondamentale, vitale. Tale condizione sentita e non concettuale, a mio modo di vedere, è ciò che contattiamo nell’esperienza estetica, concepita ovviamente come qualcosa di più ampio rispetto all’esperienza artistica. E paradigma di questo tipo di esperienza è, wittgensteinianamente, il vedere-come, il cogliere un aspetto. Il Mistico può essere pensato come quel cambiamento d’aspetto per cui qualcosa di abituale ci appare improvvisamente come inconsueto. O ancora, Mistico è lo sguardo capace di cogliere come necessario ciò che è contingente. 

Simone Weil
Simone Weil

Stefano Oliva e il carattere sentimentale del Mistico 

Oltre a essere incentrata sui limiti del linguaggio e sulla relazione con la realtà, quella delineata nel tuo studio è anche un’indagine sul carattere sentimentale del Mistico. Perché ha scelto di affrontare questo tema? 
Quando ho iniziato a interessarmi al Mistico, riconoscendone i tratti essenziali anche in alcune riflessioni contemporanee che senza usare questo termine si riferiscono sostanzialmente al medesimo tipo di esperienza, mi sono posto la domanda circa la differenza tra colui che giunge al Mistico e l’uomo della strada. E ho formulato il problema in questi termini: che cosa sa l’uno di più o di diverso rispetto all’altro? In cosa differiscono il punto di vista mistico e il nostro punto di vista abituale? Sono andato a cercare la risposta a questa domanda nella natura “pratica” del Mistico: nessun contenuto segreto, nessuna conoscenza esoterica segna la distanza tra lo sguardo mistico e lo sguardo quotidiano, ma un diverso modo di sentire il mondo, di farne esperienza e di accettarne l’esistenza. Credo che sia questa natura sentimentale a fare del Mistico un genere peculiare di esperienza estetica, il cui principio non è riconducibile a una forma di sapere ma appunto a una condizione sentita, non concettuale, che costituisce un punto d’arresto dell’interrogazione filosofica. Un modo di vedere in cui la richiesta di spiegazioni finalmente si acquieta – senza peraltro aver trovato una risposta. 

La prospettiva che tracci nel tuo libro L’elefante e il poeta rispetto alla condizione di tre discipline – mistica, estetica, psicoanalisi – rivela anzitutto il pronunciarsi di un ripensamento sul loro statuto scientifico. Parallelamente, proponi una riflessione sulla possibilità di fare un passo indietro per osservare l’andamento delle nostre ricerche e porci quesiti sui loro successi e insuccessi. Una “preoccupazione epistemologica”, come scrivi all’inizio, che porta con sé anche una necessità di carattere metodologico. 
Fin dalla nascita settecentesca della disciplina, sappiamo che l’estetica non è estranea all’epistemologia: sentire e conoscere sono attività distinte ma non irrelate e anzi un principio estetico opera proprio al cuore della scienza. Ora, ripensando a tre filoni di ricerca che avevo sviluppato in maniera autonoma l’uno rispetto all’altro, mi sono reso conto che mistica, estetica e psicoanalisi sono in primo luogo tre “scienze”, tre problematiche forme di sapere del corpo, campo di battaglia degli affetti, che proprio nel loro costituirsi in quanto discipline pongono interessanti grattacapi e inquietano il modello di scienza dominante con cui di volta in volta si vengono a confrontare. La costitutiva difficoltà di dire, di esprimere il loro contenuto, così come lo scacco e il limite che incontrano quasi d’ufficio, ne fanno tre “perdenti” dal punto di vista scientifico e al tempo stesso consegnano loro il ruolo di ospiti perturbanti delle nostre imprese conoscitive correnti, capaci di ricordarci l’ineffabile che costituisce il punto cieco di ogni visione, sia pure la più chiara e distinta. 

Associavo la preoccupazione epistemologica a un’urgenza in ambito metodologico, perché penso che – soprattutto in sintonia con gli insegnamenti offerti dagli studi di psicoanalisi – nel libro risalti un tema in particolare: quello delle nostre inefficienze. Difatti tu osservi, d’accordo con Michel de Certeau, che il desiderio di sapere trova nell’inclinazione mistica una sua nuova ragion d’essere, ossia un modo per riattivare il movimento alla base dell’indagine filosofica. Qual è la tua posizione in proposito? 
Quella che definisci urgenza metodologica è connaturata con il Mistico, se con ciò intendiamo il limite interno della dicibilità: le nostre inefficienze linguistiche, i nostri fallimenti conoscitivi non sono accidentali ma costitutivi. Intendo dire: occorre prendere atto che qualcosa non viene alla parola, che qualcosa deve sfuggire al linguaggio proprio affinché esso possa funzionare entro i limiti che gli sono propri. L’insoddisfazione connessa al Mistico non è dovuta alla perdita di un dicibile che malauguratamente ci sfugge ma alla mancanza ineliminabile di ciò che non si lascia dire (tenendo a mente che non è esattamente un ciò, un oggetto tra gli altri). Non sono certo che questo riattivi l’indagine filosofica; piuttosto, con Badiou, direi che il Mistico è strettamente legato a quel rovescio della filosofia che è l’antifilosofia, praticata da una costellazione di autori variamente segnati da un’ispirazione religiosa che concepiscono il proprio pensiero più come atto che come teoria, e si pongono non tanto alla ricerca della verità quanto alla ricerca del senso. Un senso, beninteso, che non si riduce al significato linguistico ma allude ancora una volta alla dimensione sensibile e vitale del pensiero. 

La musica nella visione di Stefano Oliva 

Un soggetto ricorrente nei tuoi studi è la musica. Una pratica artistica che hai preso in esame alla luce di diversi resoconti filosofici: la teoria della formatività di Luigi Pareyson, l’ultima filosofia di Wittgenstein. Se dovessi provare a tracciarne un agile profilo basato su questi resoconti, che aspetto avrebbe quello della musica?  
Il mio interesse teorico deriva da precedenti studi musicali, alla luce dei quali le riflessioni filosofiche sulla musica mi hanno a lungo lasciato insoddisfatto. Nel concetto di formatività, definito da Pareyson come “un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare, ho inizialmente trovato una chiave per pensare la forma musicale, che viene realizzata dall’artista e allo stesso tempo “si fa” da sé, giungendo a maturazione non secondo un piano astratto preordinato ma quasi come frutto di uno sviluppo organico. In questo senso, come forma che si va facendo in progress, la musica non può essere ridotta a segno che sta per altro, a veicolo per contenuti emotivi o spirituali già dati. Contro questa indebita linguisticizzazione della musica è proprio Wittgenstein che ci consente in primo luogo di cogliere la frase musicale come forma compiuta e conclusa in sé stessa (l’accostamento tra melodia e tautologia suggerito dal primo Wittgenstein) e, successivamente, di aprire la comprensione musicale al gioco delle somiglianze di famiglia con altre forme espressive, in direzione di un più ampio modello di comprensione gestuale. La comprensione linguistica viene allora illuminata da quanto avviene nella comprensione musicale (e non viceversa): “Comprendere un enunciato significa afferrare il suo contenuto; ed il contenuto dell’enunciato è nell’enunciato”, scrive Wittgenstein nel Libro marrone. Proprio come quando comprendiamo un tema musicale. 

Mi soffermo ancora sulla filosofia di Wittgenstein. Scrivi che egli ricorre alla forma melodica per indicare “il limite interno del rapporto tra linguaggio e mondo”, l’espressione e la messa a tema della struttura logica del linguaggio umano. Pensi che la musica, considerata come pratica artistica, possa avere uno scopo affine o che – per esempio come propone Susanne Langer – sia espressione e articolazione delle idee di sentimento (nel quadro di una logica alternativa a quella del linguaggio)? 
Ripercorrendo il pensiero di Wittgenstein sono rimasto colpito dal fatto che, dovendo illustrare alcune caratteristiche del linguaggio e della comprensione verbale, egli utilizzi a più riprese esempi tratti dall’ambito musicale. Quando vogliamo spiegare qualcosa, utilizziamo il noto per chiarire l’ignoto: dunque la musica doveva sembrare a Wittgenstein quanto di più familiare. La riflessione sulla musica invece tende a vedere questa come un enigma e, partendo da modelli linguistici generici, metaforici o semplicemente fuorvianti, finisce per delineare un’idea di linguaggio musicale per me poco convincente. Appunto, come suggerisci, un linguaggio del sentimento. Un modo interessante di concepire la musica è invece l’idea secondo cui essa si nutre dei nostri giochi linguistici, ne presuppone e ne assume le molteplici potenzialità espressive diventando, con una felice espressione di Luciano Berio, un “linguaggio di linguaggi”. A patto però di non considerare questo un veicolo, un “mezzo di comunicazione” semmai più sofisticato: lo intenderei piuttosto al contrario, come un linguaggio che ha deposto la comunicazione per farsi gesto, per esporre la propria articolazione espressiva in maniera condensata e svincolata dalle funzioni strumentali del linguaggio verbale. Un linguaggio che, esprimendo soltanto il fatto del dire, l’enunciazione, diventa pura voce. 

Davide Dal Sasso 

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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