L’architettura? È qualcosa di vivo. Intervista all’architetta Elizabeth Diller
Ultimi giorni per visitare al MAXXI di Roma la mostra “Architettura instabile”, la cui curatela e il progetto di allestimento si devono al noto studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro. La raccontano gli architetti Elizabeth Diller e David Allin

Nell’ambito della mostra Architettura Instabile, curata e progettata dallo studio Diller Scofidio + Renfro, l’architetta Elizabeth Diller ha tenuto al museo MAXXI di Roma una lectio magistralis lo scorso 20 febbraio. L’evento ha offerto l’occasione per incontrarla e parlare con David Allin, Principal dello studio e Project Leader della mostra. Pochi giorni dopo è arrivata la triste notizia della morte dell’architetto Ricardo Scofidio, compagno di vita e di lavoro di Diller. Con la sua scomparsa l’architettura perde un gigante della scena internazionale: amatissimo docente alla Cooper Union per più di quarant’anni, nel 1981 Scofidio ha fondato con Diller lo studio multidisciplinare Diller + Scofidio, alla cui leadership si è unito nel 2004 Charles Renfro. Dalle performance, installazioni e set teatrali degli esordi, agli iconici progetti degli anni più recenti – come la High Line, la trasformazione del campus del Lincoln Center e l’ampliamento del MoMA – DS+R ha plasmato l’immagine contemporanea di New York.
L’architettura secondo Diller Scofidio + Renfro
Tra i progetti dello studio attualmente in corso, il nuovo deposito d’arte del Victoria and Albert Museum, che ripensa l’idea del magazzino rendendo la collezione del museo londinese – oltre 250mila oggetti, 350mila libri e mille archivi – accessibile al pubblico. V&A East Storehouse aprirà a fine maggio, poco dopo l’inaugurazione della Biennale Architettura 2025, dove lo studio newyorchese sarà non solo tra i protagonisti della mostra del direttore Carlo Ratti, ma presenterà, in collaborazione con Brendan Cormier, il Padiglione delle Arti Applicate promosso dallo stesso V&A.

La mostra curata da Diller Scofidio + Renfro al MAXXI di Roma
Partiamo dalla mostra da voi curata e allestita qui al MAXXI. Qual è la vostra definizione di “architettura instabile” (restless architecture in inglese, N.d.R)?
Elizabeth Diller: Uso sempre questo termine in un’accezione molto positiva. Per me, una persona irrequieta [restless, N.d.R.] è qualcuno che non si ferma mai, che pensa continuamente e in modo creativo. Significa non permettere che le cose diventino obsolete, ma pensare costantemente a come adattarle a un mondo in evoluzione: una persona restless non si limita a risolvere problemi, ma ne inventa di nuovi, assicurandosi che quelli da affrontare siano i più rilevanti. Questo vuol dire pensare al futuro.
Considerate l’architettura “una forma di arte performativa”. In che modo questa visione si collega al concept della mostra?
E.D.: Per me l’architettura è qualcosa di vivo, non un’entità statica. È costantemente in movimento, in uso, interpretata da chi abita i suoi spazi. Quando progetto, spesso realizzo storyboard cercando di immaginare e guidare cinematograficamente il modo in cui gli utenti vivranno l’edificio: cosa vedranno prima di arrivare al sito, come percepiranno l’edificio nel suo contesto, come attraverseranno la soglia dallo spazio pubblico a quello privato o semi-pubblico. Per me l’architettura è sempre stata, in un certo senso, una questione di effetti speciali. Può sembrare hollywoodiano, ma pensa al Pantheon: non è forse una macchina per effetti speciali? Credo quindi si tratti di creare spazi dinamici: come gli esseri umani contribuiscono alla loro creazione, così possono gli edifici in mutamento – instabili, appunto.
Dietro le quinte della mostra “Architettura instabile”
Passando ai materiali in mostra, alcuni provengono dalla collezione MAXXI. Potete raccontarci come avete interagito con l’archivio del museo?
David Allin: Abbiamo collaborato con il team curatoriale del MAXXI al fine di esaminare la loro collezione di architettura e identificare progetti legati ai temi della mostra. Una scoperta per noi è stata la proposta di Maurizio Sacripanti per il Padiglione italiano all’Expo 70 di Osaka. È un progetto visionario nell’aver immaginato come sistemi controllati da computer potessero permettere agli edifici di adattarsi al loro utilizzo, letteralmente espandendosi e contraendosi in risposta al numero di visitatori.
Gli spazi del MAXXI sono una sfida per chiunque sia chiamato a realizzare una mostra. Spesso gli allestimenti preferiscono non interagire con il dinamismo delle curve di Hadid; il vostro sistema di tende in movimento, al contrario, lo esalta.
D.A.: Gli spazi espositivi del MAXXI sono complessi perché mettono in movimento i visitatori: sono al tempo stesso gallerie e vie di circolazione. Tuttavia, per una mostra incentrata sul movimento, questo rappresentava anche un vantaggio. Invece di suddividerla con partizioni fisse, abbiamo mantenuto la spazialità aperta della galleria, e inserito tre tende che si muovono lungo le iconiche travi dei lucernari. Le tende seguono queste “linee” sul soffitto, ma serpeggiano anche fuori pista per produrre temporanee interruzioni nel regolare flusso di circolazione della mostra. Un conto alla rovescia digitale scandisce la durata di ogni circuito: quando il timer raggiunge lo zero, le tende si avvolgono attorno un gruppo di sedie, formando tre teatri temporanei per la proiezione dei video in mostra.






Architecture, Not Architecture, la prima monografia dello studio Diller Scofidio + Renfro
Per Phaidon è appena uscita la vostra prima monografia. L’opera è suddivisa in due volumi strutturalmente congiunti: Architecture racchiude la vostra produzione architettonica, Not Architecture i vostri lavori non tradizionalmente associati alla disciplina architettonica – installazioni, set teatrali, oggetti, allestimenti, curatele. Ci potete spiegare il motivo di questa scelta?
E.D.: Anche se la monografia sembra presentare due tipi diversi di lavoro, in realtà la nostra produzione è molto fluida: il libro è stato progettato proprio in base alle relazioni tra i nostri lavori. La struttura a due volumi permette di vederle più facilmente: un progetto in un volume ti rimanda a un altro progetto nel volume adiacente, che a sua volta ti indirizza a un altro nel precedente. L’interazione con i due volumi e la performance nel leggerli sono fondamentali: in questo modo la lettura non segue un percorso lineare, può portare in qualsiasi direzione. Si tratta di passare da un esperimento all’altro.
Uno degli indici del libro è per “ossessioni”: come lo avete composto?
E.D.: Alcuni temi ricorrenti nel nostro lavoro li conoscevamo già. Ad esempio, indaghiamo sin dagli esordi sulla visione come fenomeno culturale: riflettiamo sul voyeurismo, i diversi tipi di visione, la performance e l’atto del guardare dello spettatore, la sorveglianza. Il Blur Building [2002, ndr.], per esempio, indaga l’oscuramento della visione, tema su cui continueremo a lavorare.
Progettando il libro, avete scoperto nuove ossessioni?
E.D.: Sì. Ci sono ossessioni di cui non mi ero mai accorta: non avevo idea di quanti progetti legati all’acqua avessimo realizzato, per esempio! Abbiamo anche fatto diversi progetti che “arrossiscono”, tema a cui non avevo mai pensato come a un’ossessione. E abbiamo scoperto molte connessioni anche dopo la pubblicazione del libro: magari nella ristampa ne vedremo ancora di più! Quando realizzi un libro di questo tipo devi avere l’oggettività e la libertà di non pensare in ordine cronologico, ma di guardare alla tua produzione in modo tematico, restituendo la tua irrequietezza: ci sono temi che non scompaiono mai, che continuano a riemergere. Perché, semplicemente, non sono risolvibili: sono problemi, e per noi il punto è identificare la relazione che instauriamo con essi.
Marta Atzeni
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