I centri storici delle città Italiane ed europee sono molto diversi tra loro, connotati da una storia locale urbanistica, culturale ed economica che ne ha determinato forma, carattere e aspetto. Forse a causa di una sorta di “globalizzazione” del paradigma estetico, stanno assumendo tra loro connotazioni di identità estetica. Fatto salvo il respiro tipico e unico di ogni luogo, aumentano sempre più i caratteri di similitudine e quella sensazione familiare di già visto.
Le città, la percezione che ne abbiamo, l’immagine che dà di se è determinata, oltre che da una miriade di fattori storico-ambientali e antropologici, dall’azione, banale e ciclica, a tratti routinaria, della manutenzione delle superfici intonacate degli edifici. Le tinteggiature, le coloriture delle superfici verticali del “costruito”, che costituiscono una porzione veramente ampia del paesaggio urbano. Di conseguenza è facile comprendere come questa azione determini il mutare dell’aspetto del paesaggio nel tempo.
Si tratta di un tema sensibile, ampiamente studiato e normato nei Paesi europei da relative leggi, alcune comunitarie e altre statali. In Italia la problematica ricade nell’ambito della tutela del paesaggio, sottostante alla normativa per la tutela dei beni culturali e del paesaggio, per quanto riguarda i beni soggetti ad atto di vincolo in via diretta. Il resto del paesaggio urbano è a cura dei Comuni che, con preposte commissioni edilizie o per il paesaggio, applicano strumenti di carattere locale come i piani di governo del territorio e piani particolareggiati del colore. Sotto il profilo normativo è tutto perfettamente organizzato. Eppure il risultato continua a essere sorprendente e a tratti stridente.
Dato per assodato che il gusto collettivo più comunemente denominato “moda” ha forti ripercussioni sull’aspetto del territorio delle città, ci si chiede quale sia la giusta misura tra evoluzione e conservazione della memoria storica.
Vero è che la visione di certi paesaggi urbani così soggiacenti alla moda del momento è vagamente distraente rispetto al concetto di autenticità. Pensiamo ai monumentali palazzi napoletani con quei rossi-arancio fluorescenti, ai grigi piatti di Torino e Parigi, ai “grigio tortora” milanesi, ai multicolori di Amsterdam o ai rossi bolognesi. Tutti colori che di per sé possono essere consoni all’ambiente o al palazzo che ricoprono. Ma c’è qualcosa che non torna, mancano di vita vibrante, costretti in una sorta di allineamento delle dinamiche ottiche di riflesso della luce. Hanno la stessa reazione alla luce di un secchio di plastica. Sono colori piatti che non ammettono aneliti di storia o tracce di vita. Una perfezione che porta lontano. Lontano dallo storico e vicino a noi, vicino alla nostra contemporaneità. Colori che spostano la percezione da ciò che è storico o antico a ciò che pensiamo debba essere tale. Al nostro paradigma acquisito, preconcetto e distorto, di paesaggio storico urbano.
COLORI PIATTI E GLOBALIZZAZIONE DEI MATERIALI
Da un punto di vista squisitamente tecnico, la motivazione delle piatte coloriture nelle città storiche è facilmente spiegabile. Quella perfezione asfittica delle superfici che le rende tutte uguali è la risultante dei materiali utilizzati per le manutenzioni e le tinteggiature. La “globalizzazione” della produzione e distribuzione dei materiali specifici per le coloriture delle ampie superfici intonacate compie il resto dell’opera e uniforma i risultati dal nord al sud dell’Europa, senza soluzione di continuità. Una globalizzazione che appiattisce anche le diatribe estetiche esistenti dal XIX secolo in quei Paesi affascinati dalle teorie di Viollet-le-Duc e in quelli seguaci dal pensiero di John Ruskin. Se si tratta di un palazzo importante, vi sono ottime possibilità che alla base della scelta del colore vi siano delle campionature stratigrafiche volte alla ricerca del colore originario di un dato manufatto. Ciò detto, è probabile che il colore che ritroviamo su questi palazzi sia quello giusto, ma vi sono altrettante possibilità che non lo siano il materiale utilizzato e la modalità di realizzazione e stesura dello stesso.
Mentre gli edifici storici ordinari, che hanno un peso determinante nella percezione complessiva del paesaggio urbano, poiché in numero maggiore, vengono travolti dal gusto dominante del momento, senza neppure il beneficio del dubbio. Per intenderci, sono quei palazzi e costruzioni minori che nel paesaggio italiano erano sopravvissuti alle vicissitudini storiche con le loro superfici e i loro colori fieri e frantumati. Gli stessi che negli anni del dopoguerra erano stati ripuliti da un casto biancore, quindi sono divenuti più freddi, magari “azzurrini”. Poi con l’arrivo degli Anni Settanta si sono ricoperti di terra marrone tendente all’arancio, con gli Anni Ottanta si sono illuminati di ocra e di giallo, negli Anni Novanta e Duemila addolciti di rosa con sfumature “pesca e papaya” e, oggi, sono color “grigio tortora”!
Lo stesso trattamento è stato riservato a infissi, griglie, portoni, ringhiere e complementi vari, che hanno variato di colore e foggia a ogni anelito di moda.
Detto per inciso, è cosa “buona e giusta” che le nuove edificazioni esprimano il pensiero e il gusto estetico dell’era contemporanea, ma l’edificato storico? Quello va rispettato nella sua essenza, lo dice la legge ed è palese alla sensibilità di chi ritiene utile il formarsi di una memoria collettiva che possa arricchirsi di riferimenti materiali e visivi o “monumentali” per un completamento contestuale della percezione della storia in generale o del dato evento storico in particolare.
TUTELA ED EVOLUZIONE STORICA
Tuttavia è comprensibile che non sia facile scindere l’azione umana sul paesaggio tra tutela ed evoluzione storica. Ma ove ci sia la possibilità di conservare una lettura autentica del valore storico artistico di un paesaggio urbano è giusto che si attui.
La via della comprensione della coloritura storica è un vicolo stretto e tortuoso per nulla facile da percorrere e di non semplice acquisizione. Serve una rivisitazione culturale perché il gusto collettivo possa comprendere che la riorganizzazione rispettosa delle tracce del passato potrebbe non avere un aspetto perfettamente omogeneo. Che l’equilibrio tra antico, vecchio e nuovo su un unico edificio è un esercizio per professionisti e di conseguenza richiede tempo e capacità tecniche. Rendere armoniche le dissonanze e le tracce di storia (senza cancellarle ricoprendole con una coltre di colore plastico) è un lavoro complesso che spesso traballa dinnanzi allo storcere di naso del gusto collettivo o alla facilità di certe soluzioni “fast”.
Il dato forse più semplice da comprendere, nonché utile ai fini pratici, è che la coloritura storica passa inevitabilmente attraverso la materia che compone le coloriture superficiali degli edifici storici. Si tratta per lo più di composti a base di calce idrata, sia per i colori a fresco che a secco e gli eventuali stucchi, qualche silicato di potassio (dalla seconda metà del XIX secolo al nord), rare tempere ed encausti. Il tutto colorato con pigmenti puri, di cavatura, minerali e molto più raramente animali. Pertanto il primo segreto per riscoprire le coloriture storiche passa attraverso il riconoscimento della materia che compone la coloritura dell’edificio in oggetto. Quindi attraverso l’accettazione e l’utilizzo della medesima materia per realizzare le manutenzioni e integrare le eventuali lacune. Infine è necessaria l’accettazione dei tempi di realizzazione nonché delle eventuali imperfezioni che essi potranno presentare.
Detto così pare semplice e per chi lo fa per mestiere in effetti lo è. Ma è ancor più semplice trattare la superficie di un edificio storico con i materiali e la manodopera dell’industria edile, apparentemente più economici.
La scelta consapevole della gestione delle coloriture dei paesaggi urbani storicizzati può dirimere il dubbio tra la superficie autentica e ciò che noi abbiamo acquisito in merito a come dovrebbe essere. Più banalmente si potrebbero allontanare paradigmi condivisi e percezioni precostituite circa l’aspetto delle superfici e delle coloriture storiche delle città. Ponendo al centro l’edificio storico che, nella sua essenza materiale, può divenire una oggettiva esperienza visiva dell’antico.
‒ Silvia Conti
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