I ristoranti nei musei in Italia. La guida ai migliori
“È un tema ricorrente quello dell’adeguamento dei servizi museali italiani agli standard che più spesso si incontrano all’estero. Pesa in questo processo anche la lungimiranza di scommettere su progetti gastronomici ambiziosi, che non releghino l’offerta ristorativa del museo a semplice necessità”. A distanza di qualche mese dall’ultima disamina sulla situazione della ristorazione museale in Italia, ci […]
“È un tema ricorrente quello dell’adeguamento dei servizi museali italiani agli standard che più spesso si incontrano all’estero. Pesa in questo processo anche la lungimiranza di scommettere su progetti gastronomici ambiziosi, che non releghino l’offerta ristorativa del museo a semplice necessità”. A distanza di qualche mese dall’ultima disamina sulla situazione della ristorazione museale in Italia, ci autocitiamo – fuor di presunzione – per ribadire un assunto che se da un lato è acquisito con consapevolezza crescente da una compagine numericamente interessante di musei – pubblici e privati – italiani, dall’altro sembra anche portare fortuna e riconoscimenti a chi ha l’ambizione di investire nel settore con cognizione di causa. Del resto, quando nel delineare una definizione di museo aggiornata sulle esigenze correnti, l’ICOM – che auspica un’istituzione accessibile e inclusiva – si dilunga nella descrizione di luoghi in grado di offrire “esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”, non fa che confermarne la pluralità di intenti e opportunità da mettere al servizio della collettività. Uno spazio piacevole da vivere, non solo per la sua missione culturale e divulgativa, ma anche per la bellezza dei luoghi e per la qualità dei servizi proposti, fa bene a tutti: alla città e a chi la abita, al sistema turistico e imprenditoriale.
RISTORANTI AL MUSEO. IL MODELLO MILANO
A Milano – unica città italiana a vantare un ristorante museale tristellato, con Enrico Bartolini all’ultimo piano del Mudec – la Fondazione Luigi Rovati non ha mai nascosto l’ambizione del suo progetto. All’inizio di settembre, il palazzo di corso Venezia 52, restaurato e riqualificato dallo studio MCA – Mario Cucinella Architects, ha aperto le porte al pubblico, con l’ipogeo dedicato alla civiltà etrusca, gli spazi espositivi del piano nobile dedicati all’arte contemporanea, i suoi molteplici servizi, dalla sala studio al punto vendita della casa editrice Johan & Levi, al caffè-bistrot con affaccio sul giardino interno. Già all’inizio di luglio, invece, aveva preso servizio il ristorante all’ultimo piano dell’edificio, con la cucina firmata da Andrea Aprea e gli ambienti progettati da Flaviano Capriotti. Non un volto nuovo per la città, quello del cuoco campano, che subito ha riconfermato il proprio valore, portando una nuova stella Michelin a Milano. Certo non sono solo, o necessariamente, i riconoscimenti di una guida a decretare se è stata intrapresa la strada giusta: citiamo l’esempio controverso del Combal.0 di Davide Scabin, per anni tempio dell’avanguardia gastronomica al Castello di Rivoli, esperienza poi naufragata per questioni di mala gestione, che nulla tolgono alla genialità del cuoco, ma certo fanno riflettere sulla sostenibilità economica dell’alta ristorazione, e su quanto sia rischioso investirvi. Ma permettere a chef di alto profilo di esprimersi nell’alveo di un luogo dove si fa cultura, oltre che ontologicamente sensato (perché il cibo è cultura, al di là degli sterili slogan che hanno banalizzato questa verità), si rivela spesso un buon affare.
LA SITUAZIONE IN ITALIA TRA NOVITÀ E CONFERME
Uscendo da Milano – dove si segnalano anche il ristorante Torre in Fondazione Prada, con la cucina di Lorenzo Lunghi e gli spazi progettati da Rem Koolhaas, e la collaborazione di Aimo e Nadia con Gallerie d’Italia, “committente” di cui riparleremo a breve –, basti pensare alla riuscita scommessa del Mart di Rovereto su Alfio Ghezzi, che negli spazi del museo trentino ha plasmato una duplice offerta, tra alta cucina (Senso, pure lui stellato) e bistrot. Mentre a proposito di riconoscimenti recenti arriviamo a Palermo per segnalare un’altra nuova stella, che premia il lavoro di Carmelo Trentacosti al Mec, peculiare ibridazione tra museo (sulla storia dei computer) e ristorante ideata da Giuseppe Forello, negli ambienti storici di Palazzo Castrone. Ma hanno investito su servizi di ristorazione degni di nota anche il Centro Pecci di Prato, dov’è storia di lungo corso il sodalizio con chef Angiolo Barni, patron di Myo, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino – con il ristorante Spazio 7, che mantiene la stella nonostante il cambio chef, con l’arrivo di Antonio Romano – e sempre nel capoluogo piemontese la Venaria Reale, dove si mangia alla tavola del Dolce Stil Novo. Diverso, ma comunque calato nell’universo culturale e della committenza artistica, è il caso del progetto che ha portato Luigi Taglienti a Piacenza, negli spazi adiacenti alla galleria Volumnia, per volontà di Enrica De Micheli. Una scommessa che, a pochi mesi dall’esordio, sta rivelando la sua solidità.
A Firenze, si distingue la pasticceria raw – vegan e crudista – di Vito Cortese (Cafè 900), elegante appendice del Museo del Novecento, con dehors nel loggiato affacciato su piazza di Santa Maria Novella. Mentre nasce in continuità con il Museo Gucci di piazza della Signoria la Gucci Osteria affidata alla supervisione di Massimo Bottura (ma sotto la guida sicura di Karime Lopez e Takahiko Kondo, che vale la stella), poi replicata in altre grandi città del mondo.
Roma, invece, si conferma una piazza difficile (o non abbastanza ambiziosa?) per la ristorazione museale, nonostante l’esperienza precoce e apprezzata del fu Open Colonna al Palazzo delle Esposizioni. Nella Capitale, dove neanche un polo importante come il MAXXI ha ancora trovato una soluzione coerente con il proprio profilo, hanno aperto negli ultimi mesi progetti, un po’ sottotono, come Molto alla Galleria Borghese e Livia a Palazzo Massimo; mentre più soddisfacente è la riuscita del Caffè Doria, che completa il percorso di Palazzo Doria Pamphilj negli ambienti che furono le scuderie della dimora signorile, e peculiare l’esperimento di Spazio Field a Palazzo Brancaccio, con il ristorante Roland.
IL CASO GALLERIE D’ITALIA
Intanto, è Intesa Sanpaolo a consolidare una strategia esemplare sul tema: dopo il “salotto” milanese di Voce, in piazza della Scala, il gruppo fautore delle Gallerie d’Italia conferma la capacità di selezionare personalità gastronomiche che sappiano portare un valore aggiunto all’esperienza museale, con buona dose di sperimentazione e volontà di esplorare nuovi linguaggi, lavorando peraltro sulla qualità in tutte le tipologie d’offerta. Alle inaugurazioni delle sedi torinese e napoletana, infatti, fanno seguito collaborazioni importanti: con i fratelli Costardi a Torino, con Giuseppe Iannotti a Napoli. Mentre ancora si attende una data certa per l’apertura torinese, in via Toledo, al piano terra di Palazzo Piacentini – ex Banco di Napoli, progettato da Marcello Piacentini, oggi sede delle Gallerie d’Italia in centro città – ha da pochissimo inaugurato Luminist, caffetteria con bistrot (e cucina che omaggia la tradizione partenopea) guidata dallo chef di Telese Terme, con la squadra che da tempo lo affianca al Kresios. Nel 2023 arriveranno anche fine dining e cocktail bar con terrazza panoramica, all’ultimo piano del palazzo; intanto, in caffetteria si può già gustare la linea di pasticceria ideata da Armando Palmieri, o scegliere dalla carta delle uova per una colazione salata, da accompagnare con uno specialty coffee. Al bistrot, con arredi in legno e ottone e cucina a vista, l’executive chef designato è Antonio Grazioli: si sceglie tra genovese, ziti allardiati, trippa alla napoletana, ma anche guardando a tecniche di cottura e ispirazioni orientali. E prossimamente Napoli dovrebbe battezzare anche il ritorno di chef Marco Ambrosino nella sua regione: il cuoco originario di Procida porterà la sua idea di Collettivo Mediterraneo in Galleria Principe, complesso storico sottoposto a vincolo monumentale che aspetta da tempo una riqualificazione. Non un museo, dunque, ma un passaggio strategico tra il Museo Archeologico e l’Accademia di Belle Arti, che proprio il MANN, in accordo con l’amministrazione cittadina, si è recentemente impegnato a valorizzare con un progetto pubblico di promozione culturale.
Livia Montagnoli
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