Tommaso Fantini e Alberto Rossi, classe 1992, sono i fondatori dello studio VG13 Architects con sede a Milano. Rispettivamente originari di Rimini e di Savona, hanno entrambi studiato all’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana a Mendrisio, e si sono laureati con Walter Angonese, il primo, e con Valerio Olgiati, il secondo. Una scuola prestigiosa quella svizzera all’interno della quale hanno iniziato a formare il loro approccio progettuale, messo in campo sin dai primi concorsi sviluppati insieme quando erano ancora studenti. Il loro studio ha all’attivo progetti in Italia, Svizzera e Marocco. Alla professione affiancano con costanza la ricerca e l’insegnamento: sono professori invitati alla Hochschule Biberach, in Germania, e sono stati docenti a contratto all’Università di Genova e all’Università Federico II di Napoli. Tommaso, inoltre, è assistente dottorando all’Accademia di architettura; Alberto è stato assistente all’ETH di Zurigo. Nel 2022 con il progetto Concrete Warehouse hanno vinto il premio di architettura “Luigi Cosenza” dedicato ai progettisti under 40. Sono stati selezionati per esporre alla recente 10 architetture italiane, allestita alla Triennale di Milano e dedicata ad altrettanti promettenti progettisti italiani under 35. Hanno una visione chiara di cosa è per loro “fare architettura” e gli abbiamo chiesto di raccontarla.
Intervista agli architetti Tommaso Fantini e Alberto Rossi di VG13 Architects
Come spesso succede nelle facoltà di architettura, anche per voi la collaborazione agli esami universitari è diventato un sodalizio professionale, giusto?
Abbiamo iniziato a progettare insieme all’università e dopo aver partecipato ai primi concorsi di architettura abbiamo capito di poter lavorare bene insieme grazie ad un approccio e una visione dell’architettura condivisi.
Cosa significa il nome VG13?
È nato dal primo concorso al quale abbiamo partecipato, serviva un codice identificativo e abbiamo scelto l’acronimo dell’indirizzo dove lavoravamo: Via Gismonda 13.
Come è composto il vostro studio? Avete dei collaboratori?
La nostra è una struttura variabile, che segue inevitabilmente il numero di incarichi e le fasi dei progetti, con collaboratori più o meno costanti nel tempo. In ogni caso, ci occupiamo in prima persona dell’ideazione e dell’impostazione di ciascun progetto. Questo per una scelta precisa: crediamo in un’architettura autoriale.
In un momento storico nel quale si parla molto di collettivi di architettura è una visione che potrebbe essere considerata controcorrente.
Oggi molti architetti identificano nel collettivo una risposta per agire nella complessità contemporanea, non solo da un punto organizzativo, ma come ideale. Fino a quando la cultura è stata considerata come accumulazione di saperi e conoscenze condivise, è stata in grado di permeare la costruzione stessa delle opere. I valori artistici e intellettuali dell’architettura potevano ancora essere attribuiti a una sorta di autorialità collettiva, capace di farsi portatrice di verità e dei desideri di una comunità, come nel caso delle grandi architetture del passato. Vediamo che oggi l’ideale pubblico e il senso culturale dell’architettura non sono più considerati dei valori e per questo crediamo nell’autore, cioè quella figura in grado di prendersi la responsabilità delle proprie scelte nei confronti della società e di sé stessi.
I progetti (radicali) dello studio VG13 Architects
Concrete Warehouse, il vostro progetto nelle Langhe, credo vada nella direzione descritta.
Si tratta di un progetto piccolo, ma sicuramente il più radicale realizzato fino a ora. Il volume ospita il deposito dei mezzi agricoli di una cantina vinicola; questo programma ci ha permesso di concentrarci su temi a noi cari e ottenere un risultato formale che è l’espressione della sintesi tra l’intenzione spaziale, la chiarezza tettonica e costruttiva dell’edificio e il suo contesto culturale, fisico ed economico. Abbiamo realizzato una capanna in calcestruzzo come unico materiale; la formula del calcestruzzo pigmentato è studiata per simulare il colore dei coppi di copertura – richiesti per normativa – con l’obiettivo di rendere l’edificio un organismo monolitico.
Credete sia concretamente possibile portare questa radicalità anche in un edificio con una funzione più complessa?
È possibile se si fa una ricerca precisa, riducendo l’edificio a pochi principi fondamentali. Se ciò che fonda il progetto, fisicamente e concettualmente, è chiaro e sufficientemente solido le soluzioni per realizzarlo si trovano.
Mi sembra che la questione dell’utilizzo del calcestruzzo vi stia particolarmente a cuore.
Anche su questo siamo un po’ in controtendenza. Seppure quella del materiale non può mai essere una scelta aprioristica, il calcestruzzo ci consente di costruire delle architetture solide sia a livello statico che concettuale oltre a permettere la realizzazione di spazi profondamente durevoli nel tempo. Per noi la vera sostenibilità si misura sulla lunghezza di vita – culturale e fisica – di un edificio più che sul materiale che si utilizza per realizzarlo.
Un esempio di questo approccio nel vostro lavoro?
In questo momento stiamo seguendo a Rimini il progetto di una palazzina di tre piani: assecondando l’indecisione della committenza, abbiamo realizzato un guscio portante in calcestruzzo che conferisce all’edificio il proprio carattere e la sua presenza urbana, oltre che a contenere tutti i passaggi degli impianti. Abbiamo naturalmente fissato una precisa organizzazione spaziale, ma avendo liberato i piani da strutture verticali è rimasta grande libertà nell’organizzazione interna, e dunque capacità di adattarsi nel tempo senza incorrere in una perdita di senso.
L’attività e la ricerca di VG13 Architects in Italia e all’estero
Seguite progetti in Italia, Svizzera e Marocco. Come vi approcciate da un punto di vista progettuale nei diversi paesi?
Anche se le differenze tra i diversi paesi sono tangibili, la nostra metodologia di progetto rimane sempre invariata: partiamo da questioni certe – come le caratteristiche del luogo, il tema, il sistema costruttivo – da cui siamo in grado di muovere un’intenzione iniziale.
Restano però delle differenze, storico-culturali, climatiche, di uso dei materiali…
Ci siamo approcciati al Marocco con grande umiltà e con l’onesta consapevolezza di non volerne o poterne comprendere appieno la storia o la cultura. Abbiamo cercato quegli elementi architettonici di cui potevamo condividere l’esperienza, legati a concetti archetipali come il recinto, da cui deriva il tema del giardino murato: cerchiamo valori e spazi universali, che ci uniscono. Ciò che facciamo con la nostra ricerca è proprio questo: tendere all’universalità, ponendo la massima attenzione a come abitiamo il mondo e all’esperienza dello spazio. La ricerca progettuale non deve essere fine a sé stessa, ma essere orientata alla costruzione.
Cosa vi augurate a livello professionale per gli anni a venire?
Di continuare a fare quello che stiamo facendo: progettare e costruire, portando avanti la nostra ricerca. Amiamo insegnare, e ci auguriamo di farlo sempre di più in Italia, anche se non è scontato.
E cosa augurate invece all’architettura italiana del futuro?
Di tornare indietro, di guardare al passato. Le città e le grandi architetture che abbiamo ereditato dalla storia sono una fonte inesauribile di riferimenti straordinari per significato, profondità intellettuale, ritualità e qualità spaziale. Ci auguriamo che l’architettura – e gli architetti –, guardando a questo passato, riescano a recuperare una visione e una considerazione più elevata del nostro lavoro per proiettarla nel mondo che abitiamo.
Silvia Lugari
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati