Storia del panno casentino. L’inconfondibile lana toscana “ricciuta” è a rischio estinzione
Il prezioso tessuto, nato e lavorato nella provincia di Arezzo già nel Medioevo, è stato usato dalle più grandi maison del mondo per la sua bellezza e resistenza. Ma ora potrebbe sparire, decretando la fine di un pezzo di storia dell'artigianato italiano

Nella moltitudine di tradizioni artigiane della Toscana, dalla pelle alla ceramica, dal marmo al profumo, ce n’è una tessile di grande pregio che da oltre un secolo porta il saper fare italiano nel mondo. E che ora rischia l’estinzione. Siamo nel Casentino, una delle quattro vallate principali della provincia di Arezzo, dove esiste un tessuto di lana spessa e colorata che non è solo noto per la sua pregiata fattura ma che, grazie alla sua lavorazione, è anche un materiale molto resistente e protettivo: il panno casentino.
Cos’è il panno casentino
Erede del panno grosso usato dai mercanti fiorentini già nel Trecento, il panno casentino è un tessuto di lana vergine che viene follato (cioè infeltrito) per renderlo impermeabile, e poi garzato, così da ottenere un lato peloso e soffice. Questo finissaggio detto a “ricciolo” – ottenuto un tempo tramite lo sfregamento con una pietra, e oggi con una macchina ratinatrice – costituisce un doppio strato isolante che rende il tessuto molto resistente all’usura, al freddo e alle intemperie, motivo per cui è storicamente preferito da chi deve spostarsi molto o trascorrere all’aperto le proprie giornate, come pastori, boscaioli e barocciai (cioè carrettieri).

Il successo mondiale del panno casentino
Il panno casentino decollò con l’industrializzazione del processo della lana nella prima metà dell’Ottocento, e nella seconda metà del XIX Secolo ricevette un’ulteriore spinta dalla commercializzazione delle mantelle per gli animali da traino: queste non erano solo molto resistenti, e quindi adatte all’uso prolungato, ma rappresentavano anche una variazione del tradizionale colore verde del panno casentino a favore di una vivida colorazione rosso aranciato (ottenuta con processi chimici pensati per aumentarne la durabilità). Scelto dalle scuderie reali Savoia e presto riutilizzato per farne dei capi, il panno piacque molto e cominciò a essere prodotto in massa come cappotto. Apprezzato da personaggi illustri come Bettino Ricasoli, Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, il cappotto trovò la sua forma finale in un elegante doppio petto con martingala e collo di volpe.
Con lo sviluppo industriale, i lanifici di Stia e di Soci (fuori Bibbiena) hanno cominciato la produzione in scala, legando ancora di più la propria economia all’attività laniera. Usato da grandi stilisti come Roberto Cavalli, Pierre Cardin e Gianfranco Ferré, e recentemente comprato da Gucci per farne degli accessori, il panno cominciò a essere esportato in tutto il mondo, comparendo anche in grandi produzioni cinematografiche come Colazione da Tiffany, indossato da Audrey Hepburn.
Il declino della produzione e il rischio estinzione
Il panno è diventato così il cuore dell’identità della vallata aretina, e nonostante alcune manifestazioni (come la Valle dei Tessuti a Soci) non è mai stato protetto né promosso a livello nazionale o internazionale. Nonostante alcune eccezioni positive – come l’acquisizione da parte della Manteco di Montemurlo (Prato) della storica Casentino Lane a gennaio 2024 -, con la crisi del comparto moda, la situazione si è complicata: la Manifattura del Casentino di Soci (ex Lanificio), che fornisce materia prima alle aziende tessili e produttrici di panno (TACS e Tessilnova), ha vissuto degli anni di grande difficoltà (commissariamento incluso), riuscendo a risollevarsi grazie agli artigiani qui impiegati, che hanno rilevato l’attività come cooperativa, e all’intervento del Gruppo Bellandi di Prato, azienda tessile cliente che ne ha acquisito il capannone. Il nome del panno ha ricominciato a girare, e se nel 2022 Re Carlo III ha fatto un ordine per un cappotto in arancio becco d’oca, nel 2024 la regista Alessandra Moretti ha presentato il corto Il panno siamo noi, che mette in scena un dialogo immaginario tra i turisti del locale Museo dell’Arte della Lana e gli imprenditori ottocenteschi Adamo Ricci (che trasformò la Società di Lanificio di Stia in un moderno complesso industriale) e Sisto Bocci (storico patron del Lanificio di Soci).
I produttori e diversi rappresentanti delle comunità locali hanno quindi fatto un appello a Regione e Governo per aiutare la produzione a uscire dalla crisi (aggravata intanto dal caro energia), e sono in dialogo in questi mesi con Valerio Fabiani, delegato del presidente Giani per le crisi aziendali, per creare un progetto “di vallata” per tutelare il panno. Ma il tempo intanto scorre. Un’altra soluzione, più veloce e sicura, la suggeriscono due soci della manifattura, Andrea Fastoni e Roberto Malossi, al Corriere della Sera: tutto si risolverebbe se subentrasse qualche imprenditore di successo, come Bertelli o Cucinelli, e salvasse il panno casentino.
Giulia Giaume
Articolo aggiornato il 25 marzo 2025.
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