Tokyo, 2020. Lo “scandalo” Zaha Hadid
Per le Olimpiadi del 2020 il Giappone è di fronte a un bivio: affidarsi ai grandi progettisti del panorama internazionale o rimanere fedeli alla propria cultura architettonica, senza per questo rinunciare a dar forma al proprio futuro. La vicenda dello stadio olimpico disegnato da Zaha Hadid è emblematica per capire dove sta andando una delle più importanti potenze mondiali, sempre in bilico fra tradizione e innovazione.
Gli aggettivi più usati per descrivere il nuovo stadio olimpico di Tokyo 2020 sono: enorme, fuori scala, invasivo, irrispettoso. L’hanno già soprannominato “l’astronave”. I numeri parlano chiaro: 290mila mq per 80mila persone e un budget di 1,3 bilioni di dollari. Di fatto, il più grande stadio nella storia delle Olimpiadi. Ma quando nel 2012 Zaha Hadid vinse il concorso, mai avrebbe immaginato di sollevare un tale polverone. Il Giappone era in corsa con Istanbul e Madrid per l’assegnazione dei Giochi e il progetto era la punta di diamante della candidatura. L’anglo-irachena era arrivata prima tra dieci illustri finalisti, tra cui Sanaa e Toyo Ito.
Il diretto antagonista di questi ultimi due, Tadao Ando, era nella commissione giudicatrice e aveva accolto l’idea progettuale con positiva convinzione: “Il progetto, dinamico e futuristico, incarna il messaggio che il Giappone vuole trasmettere al resto del mondo”. Un concetto su cui si sono sollevate posizioni contrastanti. Molti in Giappone soffrono l’invasione delle archistar internazionali, che spesso vedono i Paesi orientali come tele bianche su cui sperimentare le forme più ardite. Ma questo è il Sol Levante, la patria del complesso monumentale Hōryū-ji, la più antica costruzione in legno esistente al mondo, patrimonio Unesco. Il Paese che ha dato i natali ad alcuni dei più importanti architetti a livello mondiale come Kenzo Tange, Tadao Ando e Kengo Kuma, dove la coscienza critica è molto sviluppata.
A dare corpo al malcontento, subito dopo la nomina di Tokyo a ospitare le Olimpiadi del 2020, è stato Fumihiko Maki, noto architetto giapponese classe 1928, vincitore del Pritzker Prize nel ’93. Una protesta pacifica ma mirata, a cui hanno aderito centinaia di architetti, tra cui Sou Fujimoto e Kengo Kuma.
La principale critica mossa nei confronti del nuovo stadio è la dimensione eccessiva, fuori scala rispetto al contesto. Il progetto della Hadid si inserisce infatti nel quartiere centrale Shibuya dove si trova lo stadio di Kenzo Tange, icona delle Olimpiadi del 1964, considerato un monumento storico. Eppure la Hadid aveva affermato: “Lo stadio diventerà una parte integrante del tessuto urbano di Tokyo. La nostra ricerca sull’architettura e l’urbanistica giapponese, che portiamo avanti da trent’anni, è evidente in questo progetto”. Parole che sembrano voler giustificare un design effettivamente massivo e schiacciante. Gli architetti giapponesi non ci stanno e propongono un ridimensionamento del progetto per meglio adattarlo al contesto.
Risultato? A poche settimane dall’inizio delle proteste, che hanno invaso il web e la carta stampata, le autorità fanno un passo indietro e annunciano che, a causa della lievitazione dei costi, il progetto verrà ridimensionato ma il concept rimarrà il medesimo.
È la prima volta che una decisione del genere solleva una tale eco. Ed è chiaro che tutto sia scaturito dalle pressioni dagli architetti locali. Il progetto è infatti del 2012, ma prima delle proteste nulla era stato fatto. La certezza di ospitare le Olimpiadi, la visibilità e l’esposizione mediatica che ne deriva hanno costretto le autorità a essere più accorti, ad ascoltare il parere dei locali per iniziare l’avventura senza sconvenienti malumori.
Una vicenda che lascia emergere un’altra questione oggi molto dibattuta. Le Olimpiadi sono l’occasione per dare forma al futuro di una città, di un Paese. E l’architettura ha un ruolo determinante in questa configurazione. Il dilemma è se affidare o meno i nuovi progetti a quel gruppo elitario di architetti, noti al grande pubblico, che portano con sé una grande risonanza internazionale. Il rischio? Un’eccessiva commercializzazione e spettacolarizzazione dell’operazione, con l’inevitabile risultato di avere città senza identità, tutte uguali fra loro.
Il Giappone, per ora, decide di rallentare la corsa. Non rinuncia al suo futuro ma ci obbliga a riflettere su questo processo che sta colpendo le megalopoli in Oriente. Che sia la strada giusta? Il cantiere inizierà quest’anno e il nuovo stadio olimpico sarà pronto nel 2018. Tutto il tempo per capire se sia la strada giusta.
Zaira Magliozzi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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