Architettura per la campagna. Intervista con Anna Paola Buonanno e Piergiorgio Italiano
Nell’estate 2014 i designer Anna Paola Buonanno e Piergiorgio Italiano sono riusciti a catapultare venti persone, tra loro sconosciute e provenienti da tutta Italia, a Solofra, un paese di diecimila abitanti nell’entroterra irpino. Tutti insieme, nella prima edizione del seminario “Architettura per la campagna”, si sono “sporcati le mani”, ideando e realizzando dodici progetti immediatamente inseriti nel contesto.
Perché un intero seminario sulla campagna? L’abbiamo dimenticata?
Piergiorgio Italiano: Architettura per la campagna nasce da una serie di riflessioni legate alla contemporaneità, l’era della crisi certo, ma anche quella che sancisce la fine del design “opulento” in favore della progettazione cosiddetta sostenibile. Ci siamo chiesti se la promozione del “green”, trasversalmente rintracciabile in tutte le discipline, fosse un’abile operazione di marketing che fa a pugni con la realtà del Paese, dove quotidianamente assistiamo a catastrofi naturali dettate da una sbagliata gestione del territorio. L’idea del seminario nasce da questa critica: invece di promuovere il parco in città o i communities gardens, non faremmo meglio a ristabilire una connessione con la natura sincera, limpida, nei luoghi dove c’è immensamente bisogno di ricominciare? Per noi il miglior modo per ricongiungere l’uomo con il paesaggio naturale, recuperando quel legame con la natura che tutti reclamiamo, era lavorare in un contesto realmente rurale, a contatto con chi ha fatto della natura e dell’agricoltura la propria passione, il proprio lavoro.
Anna Paola Buonanno: Inoltre, anche noi siamo alla ricerca di una “via” per combattere la crisi intesa anche come crisi culturale, d’identità. Nel seminario ci siamo rimessi in gioco, come professionisti, ideando interventi – in relazione con la natura, gli animali, le persone che abitano la campagna – a partire da un “grado zero” del linguaggio del progetto. Abbiamo utilizzato solo materiale di recupero, raccolto in campagna, e semplici utensili: come farebbe un contadino, abbiamo lasciato perdere gli insegnamenti dell’università, i dettagli, le soluzioni raffinate e facendo prevalere invece l’urgenza, la necessità, i bisogni.
Parlare di Irpinia porta subito alla mente uno dei più devastanti terremoti avvenuti in Italia del Novecento. Eppure da eventi come quello sembra non essere scaturita una presa di coscienza davvero condivisa. Quali sono i casi italiani più emblematici in negativo?
A.P. B.: Sono originaria di quella zona e in modo spontaneo ho pensato di realizzare lì Architettura per la campagna. Ma non è stata l’unica motivazione. L’Irpinia è stata ed è un territorio critico: il terremoto ha solo accentuato problematiche e criticità già presenti. Solofra, ad esempio, ha come unico motore trainante l’industria conciaria. È diventato un paese florido a scapito del suo territorio, spremuto fino all’inverosimile: le campagne sono state abbandonate, le montagne erose, le acque inquinate. Oggi questo modello economico non funziona più: ci ritroviamo un ambiente martoriato, industrie inattive, nonché un paese senza crescita, dove i giovani restano malvolentieri.
P. I.: In Abruzzo, mia regione d’origine, la situazione non è diversa. Abbiamo decine di paesi fantasma sull’Appennino: difficile ipotizzarne il futuro. E abbiamo avuto, purtroppo, il terremoto de L’Aquila nel 2009 con il conseguente azzeramento di una delle zone produttive della regione, dell’università ecc. La nostra volontà è stata però quella di lavorare proprio in uno di questi territori difficili: grazie al seminario abbiamo posto l’attenzione su un paese che altrimenti nessuno dei partecipanti avrebbe mai conosciuto o visitato. E forse l’unica via percorribile per riattivare questi luoghi non è aspettare la politica, ma provare a trasformarli con azioni corali, dal basso.
Accennavamo prima al fatto che il “ritorno alla terra” o l’architettura sostenibile vengono talvolta visti come una tendenza, una moda. Eppure in molti Paesi questo approccio è il solo modello di intervento accettabile. Secondo voi, da chi dovremmo imparare?
A.P. B.: Forse per una volta sarebbe il caso di dire “impariamo dall’Italia”. Viviamo in un Paese che, fino a poco fa, era in grado di far coesistere agricoltura e industria. Ed eccelleva in entrambe. Era un Paese composto da piccole comunità connesse, ciascuna specializzata in un’attività o produzione. Avevamo i prodotti migliori, grazie ai quali oggi siamo conosciuti in tutto il mondo e anche l’industria, con imprenditori illuminati e creativi eccezionali. Ora sembra mancare un pensiero, un progetto: tutto è effimero, tutto fa evento. Dovremmo imparare a rispettare il territorio, ad agire in modo da farlo rivivere, anziché usarlo come espediente di promozione commerciale.
“Se io avessi lavorato a larghi gradini la collina e se avessi scavato canali grandi e piccoli – come le vene di un braccio – perché l’acqua della pioggia fosse raccolta, curata e amministrata a coprire la terra delle terrazze, e se poi avessi piantato a spazi equidistanti le piantine di riso e guardato ogni giorno il cielo nero mescolarsi, specchiandosi, alle foglie che crescono sott’acqua, e se poi finalmente, dopo centoquaranta giorni, avessi raccolto il riso con pazienza, questo chilo di chicchi bianchi, per me, sarebbe sacro”. Avete scelto, tra l’altro, anche questa frase di Ettore Sottsass jr. per il lancio di Architettura per la campagna. Quali dinamiche sono sorte attraverso l’esperienza di un seminario senza distinzioni maestro/allievo? Come evolverà il progetto?
A.P. B.: Alcuni testi di Sottsass, come quelli di Enzo Mari, alcuni progetti di UFO e 9999, ci hanno sicuramente ispirato. Loro hanno capito e studiato, prima di altri, il rapporto tra progetto, natura e vita. Volevamo tornare a un’idea di assenza di prodotti, metodi, strutture, docenti e tutor, rimettendo in discussione le nostre conoscenze: semplicemente, piantare un chiodo, creando un dibattito attorno al progetto privo di sovrastrutture e banalità. Riducendo tutto all’essenziale, siamo arrivati a scelte veloci, immediate.
P. I.: Abbiamo ricevuto alcune proposte per portare il progetto in altre zone d’Italia, magari in primavera, e ne siamo molto lusingati. Inoltre stiamo lavorando a una pubblicazione che, nello spirito di tutto il progetto, sarà condivisa e co-progettata con i partecipanti.
Siete insieme anche nell’esperienza di from Outer Space: quali sono i vostri obiettivi professionali? Come si vive nella condizione di “giovani progettisti in Italia”?
A.P. B.: from Outer Space è un’idea nata nel 2013: lì convergono i nostri progetti comuni, passati e futuri. Ci occupiamo di interni, allestimento, ma anche grafica: prediligiamo un approccio trasversale, senza isolamento in una sola disciplina. Operiamo in modo indipendente e critico, imponendoci sempre grande attenzione al contesto di progetto. Eppure fare questo lavoro è complicato, non solo per la condizione giovanile generale: la figura del designer è spesso confusa in Italia con l’architetto estroso, l’arredatore, il “creativo che disegna cose belle e inutili”. Per noi progettare non significa limitarsi agli aspetti decorativi, seppur importanti, ma esprimere la nostra visione della società.
Valentina Silvestrini
www.facebook.com/architetturaperlacampagna
www.fromouterspace.it
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