Un’Esposizione annacquata. Expo da Montréal a Milano
C’era un tempo in cui le esposizioni universali celebravano la modernità. Gli stati nazionali facevano a gara a chi avesse il padiglione più moderno e gli architetti sperimentali investivano in questi edifici tutto il loro ingegno. E poi…
EXPO67: FULLER A MONTRÉAL
Nell’Esposizione Universale di Montréal del 1967, Buckminster Fuller costruì una delle sue più grandi cupole geodesiche, strutture reticolari ampie quanto isolati, quartieri o addirittura città che rendevano inutili molte funzioni – come il riparo dagli agenti atmosferici – normalmente delegate ai palazzi. E il 25enne Moshe Safdie disegnò un Habitat di cellule residenziali realizzate in fabbrica e giustapposte in loco che avrebbe dovuto abbattere i costi di costruzione. Introdusse il principio che l’abitazione, come l’automobile, la si cambia dopo un ragionevole ciclo di vita: l’idea era troppo ottimista, tanto che ancora oggi le case di Safdie svolgono la loro funzione e, diventate una delle attrazioni di Montréal, fanno bella e statica mostra di sé.
EXPO70: TANGE A OSAKA
L’apoteosi dell’idea di un’esposizione universale dedicata a celebrare l’architettura della società contemporanea fu l’Expo di Osaka del 1970, gestito dall’abile regia di Kenzo Tange, il progettista che in seguito disegnerà, tra le altre cose, i centri direzionali di Bologna e di Napoli e il gigantesco quartiere Librino a Catania. Il giapponese realizzò un’enorme megastruttura sospesa su soli quattro pilastri e delle dimensioni di circa 100 metri per 200, pari a quattro campi da calcio. Ma anche gli altri progettisti dei 53 padiglioni stranieri e dei 32 nazionali non furono da meno: chi realizzò strutture pneumatiche, chi costruzioni interrate, chi arditi grappoli di capsule prefabbricate. E fra i tanti c’era il giovanissimo Renzo Piano, allora ai suoi esordi: l’anno dopo, 34enne, insieme a Richard Rogers e Gianfranco Franchini, vincerà il concorso per il Centre Pompidou a Parigi.
EXPO2015: E A MILANO…
Oggi, con l’Expo di Milano, siamo lontani da quei tempi eroici. D’altronde è da numerosi Expo a questa parte che non si vede una concentrazione di padiglioni degni di nota, anche se ovviamente ci sono state alcune e notevoli eccezioni. Manca un’idea di futuro che muova gli animi e convinca gli espositori ad abbandonare ciò che attrae perché semplicemente scenografico in favore di ciò che conquista perché profetico.
Certo, in questo Expo di Milano all’inizio c’era un’idea bella e stimolante: costruire poco e dare la parola alla terra e al cibo, sostenendo che oggi per generare progresso occorra fare un passo indietro. L’ipotesi espositiva era però troppo forte e forse poco scenografica; inoltre comportava una cooperazione di intenti fra troppe realtà nazionali ed economiche. E così si è deciso di annacquarla allestendo un Expo piacevole ma lottizzato per padiglioni come tanti altri. Dell’importanza del quale forse ci dimenticheremo nel momento in cui saranno chiusi i battenti e si dovranno tirare le somme.
Luigi Prestinenza Puglisi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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