Jeanne Gang è Architect of the Year 2016. L’intervista
In occasione di un recente appuntamento all’American Academy in Rome, abbiamo incontrato la progettista statunitense, fondatrice nel 1997 di Studio Gang Architects, con sedi a Chicago e New York.
Compreso nel nutrito programma di appuntamenti annuali – concerti, mostre, simposi e ben quaranta conferenze – dell’American Academy in Rome, tra i principali centri americani fuori dagli Stati Uniti la cui attività è focalizzata sullo studio indipendente e sulla ricerca avanzata nelle arti e nelle discipline umanistiche, il recente incontro dal titolo Defining Practice Embracing Blur ha avuto come protagonista l’architetto Jeanne Gang, in dialogo con Maristella Casciato. Vincitrice del riconoscimento Architect of the Year – premio assegnato dalla rivista The Architectural Review nell’ambito dei Women in Architecture Awards 2016 – per il progetto Arcus Center for Social Justice Leadership, nella pratica professionale Gang si misura costantemente con le questioni della sostenibilità e del riutilizzo, firmando interventi soprattutto in America e in Asia.
In questo momento sta lavorando all’espansione dell’American Museum of Natural History di New York, un intervento dagli interni fortemente scultorei con molteplici punti di osservazione. In quale modo le tecnologie e le possibilità offerte dall’interazione stanno cambiando la fruizione degli spazi museali?
Il concept relativo all’ampliamento del AMNH – il Richard Gilder Center for Science, Education and Innovation – nasce dalla mission del museo: rendere la scienza più visibile e accessibile a tutti. Anche se le persone sono più informate e connesse rispetto al passato, rimane cruciale favorire la comprensione collettiva dei temi scientifici, soprattutto a causa delle urgenti questioni che tutti abbiamo di fronte: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, le epidemie, solo per citarne alcuni.
Oggi, i visitatori si aspettano molto di più dall’esperienza di visita e sono consapevoli dell’esistenza di tanti potenziali strumenti a loro disposizione. Abbiamo pensato che per soddisfare questo desiderio di maggiore informazione e per rendere possibile, a quanti lo desiderano, andare più a fondo, fosse importante intervenire attraverso modelli autonomi di scoperta ed esplorazione dello spazio.
Come ha lavorato per raggiungere questi obiettivi?
Parte della nostra azione nel progettare la struttura è stata finalizzata a identificare un modo per migliorare notevolmente la circolazione dei visitatori e le funzionalità del museo, affinché l’incremento dei flussi esistenti si trasformasse in un fattore positivo.
Nel museo attuale ci sono numerosi vicoli ciechi, strozzature e alcune spazialità in parte frustranti: rendere l’intero museo più accessibile e leggibile e migliorare la fluidità con cui le persone si spostano e interagiscono con lo spazio, sebbene rappresenti un aspetto molto tecnico del layout, era essenziale.
L’architettura cosa può garantire a visitatori sempre più consapevoli, esigenti e iperconnessi? Come può “oltrepassare” la propria dimensione fisica?
Oltre agli aspetti funzionali, l’architettura deve ispirare i visitatori: così facendo può facilitare la mission museale. Il nostro progetto genera l’opportunità di esplorare e di scoprire, un aspetto paradigmatico nella pratica scientifica, in un certo senso innato nell’essere umano. Entrando nello spazio, abbiamo voluto creare un senso di stupore e meraviglia: attraverso la luce naturale dall’alto, ma anche offrendo collegamenti visivi tra le mostre, lo spazio riservato ai progetti educativi e le attività di ricerca che si svolgono all’interno del museo. Tuttavia, per rendere continuo l’apprendimento, estendendolo anche al di fuori delle mura dell’istituzione, abbiamo sviluppato un’estensione delle esperienze digitali.
In che modo?
Attraverso feed dal vivo connessi agli strumenti innovativi utilizzati dagli scienziati del museo – come quelli usati per la mappatura genetica, 3D imaging, l’assimilazione e visualizzazione dei dati – ci saranno opportunità per i visitatori di misurarsi direttamente, e in tempo reale, con l’innovazione scientifica portata avanti nel museo. Vaste collezioni museali saranno inoltre rese ulteriormente accessibili: attraverso questa tecnologia, i visitatori potranno ottenere informazioni approfondite e aggiuntive sui singoli pezzi esposti.
L’ultimazione della Folsom Bay Tower di San Francisco è stata annunciata per il 2018, e quella della Solar Carve Tower di New York per il 2017. Questi edifici a torre come si misureranno con la questione ambientale, così peculiare nel suo lavoro?
Fin dal momento in cui abbiamo intrapreso la progettazione di Aqua Tower, la nostra prima torre, nel 2004, ci siamo impegnati per identificare nuovi e interessanti modi attraverso i quali gli edifici alti possano contribuire positivamente ai contesti urbani di riferimento. La popolazione mondiale ha superato quota 7 miliardi nel 2011 e, dato che molte città continuano a svilupparsi sia sul fronte della densità sia in altezza, diventa sempre più importante rispondere alle urgenze legate alla crescita, alla necessità di progettare edifici in grado di ridurre il consumo di energia, capaci di divenire pienamente parte di un tessuto urbano coerente. È importante, in questa fase storica, che i progettisti insistano su questa tipologia di edifici e sviluppino soluzioni.
Siamo costantemente al lavoro per ridurre gli impatti negativi dei nostri edifici e, attraverso la nostra ricerca di design, abbiamo sviluppato diverse strategie per rendere gli edifici alti più sensibili, connessi e coerenti con l’ambiente urbano: l’obiettivo è creare il tipo di città nella quale la gente desideri vivere.
A New York, fra le strategie messe in campo c’è anche il cosiddetto “solar carving”, per “scolpire con la luce” senza togliere aria e, appunto, luce all’High Line.
È un modo di lavorare in maniera creativa con la forma per convogliare la luce, l’aria e la visuale sul contesto urbano, al di là dell’impronta dell’edificio. Abbiamo raffinato questa strategia con il Solar Carve Tower di New York. Incidendo in modo digitale la massa dell’edificio con angoli d’incidenza solare, siamo stati in grado di raggiungere una forma che avvantaggia l’adiacente parco High Line, assicurando il maggior apporto possibile di luce e aria.
E per quanto riguarda la torre di San Francisco?
La costruzione della Torre Folsom e del suo blocco era già stata approvata prima che iniziassimo il nostro processo di progettazione; inoltre vanno rilevate alcune differenze di carattere ambientale. Nel design abbiamo utilizzato la finestra bay window – una soluzione familiare in città – capace di portare maggiore luce naturale a tutti i livelli dell’edificio e di offrire una vista davvero mozzafiato della città e sulla baia. San Francisco, inoltre, sta sperimentando una carenza di alloggi e la municipalità ha richiesto un maggior numero di unità abitative acquistabili su quel sito rispetto al quantitativo inizialmente previsto.
Studiando le ombre sull’ambiente circostante, abbiamo rilevato come, aumentando l’altezza della torre, l’impatto nei dintorni sarebbe stato contenuto. Quindi, in questo caso, il nostro team ha ragionato sull’incremento dell’edificio, al fine di rispondere all’esigenza di ulteriori appartamenti su quel lotto.
Il suo studio si è aggiudicato un concorso a Brasilia: sarà la vostra prima volta in Sudamerica. Può svelarci qualche dettagli del progetto, i tempi previsti e le sue aspettative in un contesto così articolato?
Anche se sarà il nostro primo edificio in Sudamerica, ho passato del tempo in Brasile: ho ampiamente studiato la città e la sua architettura. È un luogo mozzafiato, con tante sfide e numerose opportunità. Il progetto è il nuovo complesso dell’Ambasciata degli Stati Uniti, nei pressi della sede del governo brasiliano; includerà la cancelleria, residenze e strutture di supporto per la comunità diplomatica. Siamo molto entusiasti di questa progettazione a servizio della diplomazia degli Stati Uniti all’interno di un contesto internazionale di tale rilievo.
Studio Gang ha partecipato alla prima edizione della Biennale di Architettura di Chicago. Qual è l’eredità di quell’esperienza e cosa possiamo attenderci dalla sua evoluzione?
La prima Biennale di Architettura di Chicago ha spinto i suoi partecipanti a interrogarsi con forza sullo “stato dell’arte dell’architettura” e il nostro studio ha partecipato alla mostra collettiva con Polis Station, un progetto avviato in autonomia, non commissionato, destinato a ripensare il concept della stazione di polizia. Abbiamo ragionato sulle modalità attraverso le quali l’architettura potrebbe aggiungere idee valide alla riflessione generale sul miglioramento delle relazioni tra la polizia e le comunità: abbiamo immaginato come potrebbe funzionare una “community-centered police station”.
Cosa ne pensa della Biennale in generale?
Credo sia stata l’occasione per la comunità internazionale di architetti per raccogliere e imparare dai temi collettivi, condividendone gli esiti. Osservando il terreno comune, emerge come molti architetti stiano lavorando a soluzioni sul tema dell’abitazione, ma anche sulla questione dell’ingiustizia sociale e sull’adattamento della città ai cambiamenti climatici e all’urbanizzazione.
La Biennale di Chicago ha dimostrato quanto architetti e designer siano rilevanti per la società e, dall’altra parte, ha messo in evidenza quanto la nostra creatività, collettivamente intesa, sia indispensabile per rispondere a bisogni urgenti. Le prossime edizioni potranno avviare riflessioni di natura diversa, ma penso che quanto è stato intrapreso a Chicago, così come l’esperienza in corso alla Biennale di Venezia, continueranno ad accompagnarci a lungo.
Valentina Silvestrini
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